Perché io credo che questo sarebbe il vero modo ad andare in paradiso: imparare la via dello inferno per fuggirla [Niccolò Machiavelli, lettera a Francesco Guicciardini del 17 maggio 1521].
Non l’ho mica detto a Federico Platania, ma ieri, mentre alla presentazione del suo Buon lavoro lui leggeva uno dei dodici racconti che compongono il libro, io pensavo a questa formidabile lettera del padre indiscusso della prosa italiana. Lettera che comincia all’insegna della massima familiarità e della massima giocosa irriverenza:
Magnifice vir, major observandissime. Io ero in sul cesso quando arrivò il vostro messo, e appunto pensavo alle stravaganze di questo mondo.
Certo, ho accennato alla discesa agli inferi, ma non ho nominato la fonte. E Federico, peraltro, non ha nominato Samuel Beckett quando ha sottolineato uno degli aspetti centrali di questo suo lavoro narrativo, ovvero i dialoghi costruiti all’insegna dell’incomunicabilità: scambi inani di parole che hanno un senso molto incerto per chi le manda e nessuno per chi le riceve. Parole pronunciate al solo scopo di riempire un silenzio angosciante di suoni vagamente intellegibili.
Io non ho parlato di Niccolò Machiavelli e Federico Platania non ha parlato di Samuel Beckett, ma io sono quasi sicuro che lui pensava a Beckett quando parlava di incomunicabilità, e mi piace immaginare che lui sapesse che io pensavo a Machiavelli quando ho parlato di discesa agli inferi. E Machiavelli, scrivendo quella frase a Guicciardini, pensava sicuramente alla Commedia di Dante, che lui – il mite e umile Segretario fiorentino – poteva recitare a memoria. A chi pensasse Beckett parlando di incomunicabilità sinceramente non lo so. Forse lo sa Federico, o forse no, ma non importa. Quel che importa è che Machiavelli e Beckett si sono sfiorati.
Discesa agli inferi e incomunicabilità sono due aspetti peculiari del libro di Federico Platania, libro in cui si parla del famosissimo e quasi mitologico lavoro fisso, intenzionalmente opposto a quel lavoro precario al quale molti autori contemporanei hanno dedicato qualche attenzione nei loro libri. Il lavoro fisso è comunemente detto a tempo indeterminato, espressione che evoca immediatamente una condanna definitiva, un ergastolo, una pena eterna: l’inferno, per l’appunto.
Nei racconti che compongono Buon lavoro ricorre nel ruolo di protagonista un impiegato alle prese con i meccanismi paradossali della grande azienda, meccanismo allucinatorio e disumanizzante che sembra costruito apposta per negare ai lavoratori subalterni qualsiasi pretesa di identità e dignità umana. Nei dodici racconti della raccolta Platania osserva con piglio tassonomico (e deliziosamente sadico) tre momenti tipici del rapporto impiegato-azienda: il primo giorno di lavoro; la routine quotidiana; il congedo. Tre momenti ugualmente segnati da una sensazione neanche troppo dissimulata di assurdità e di sottile allucinazione: l’impiegato neoassunto non capisce bene che lavoro dovrà fare; il veterano non ha un’idea precisa del lavoro che fa; il congedo non ha mai l’aria di essere definitivo. Una cosa sola è ben chiara: nessuno sa cosa sta succedendo. Anzi, per meglio dire, tutti hanno la sensazione che non stia succedendo proprio nulla e che nulla mai succederà, per quanto ci si ostini ad aspettare che qualcosa succeda, che arrivi chi sa quale Godot.
C’era un’aria familiare ieri sera alla libreria Librincontro di Bologna, alla presentazione del libro Buon lavoro di Federico Platania. Aria familiare e distesa, giocosa e irriverente. Aria in cui si può dire di tutto faccia a faccia, senza il timore di essere fraintesi. Per me era anche un’iniziazione: la prima presentazione libresca a cui ho assistito nella mia lunga e onorata carriera di lettore lento, dispersivo e divagante.
Ottima introduzione della brava Arianna Cameli, giornalista di Radio Città del Capo, che ha iscritto Federico Platania nella tradizione della letteratura del lavoro anni cinquanta e sessanta, evidenziando con cura affinità e differenze. Ottimo Federico, che ha letto a più riprese uno dei dodici racconti, spiegandone senz’ombra di presunzione intenzioni e meccanismi narrativi. Ottimi spettatori Mellini e Morozzi, autorevoli autori di scuola fernandelliana. E mi scuso con gli altri ottimi che non ho saputo riconoscere. Ottimo anche lo scambio finale di idee, a lettura conclusa, dove tutti i presenti sono intervenuti con rara competenza e pacatezza (doti quasi assenti, sia detto a semplice titolo comparativo, nelle maggior parte delle discussioni letterarie in rete).
Venuta la sera, sono tornato a casa e mi sono seduto in sul cesso a meditare sulle stravaganze di questo mondo, un mondo in cui il lavoro – mito fondante della civiltà contemporanea e della Costituzione repubblicana – può essere una condanna eterna alla demenza e all’alienazione, mentre leggere libri e parlarne – attività notoriamente improduttiva e sintomatica di gravi disturbi psichici – può essere un’oasi di ragionevolezza e di calore umano. Se mai i libri possono avere un’utilità pratica, forse è proprio quella di mostrare le assurdità in cui siamo inconsapevolmente immersi per imparare a riconoscerle e a combatterle: imparare la via dello inferno per fuggirla.
Tags: Buon lavoro, Federico Platania, Niccolò Machiavelli, Samuel Beckett
Il libro di Platania sarà una delle mie prossime letture.
Devo sperimentarlo anch’io “il cesso” alla maniera di Machiavelli:-)
Bart
Sarà una buona lettura, Bart, ne sono certo. Quanto al cesso, è il luogo di meditazione per eccellenza, e a quanto pare lo era anche cinquecento anni fa.
Ma allora scherziamo, mò gli diamo un compito a sti libri? Quando lo dico io, giù mazzate, ora un trionfo. Com’è che si fugge poi?
Eh, ma utilità pratica <> compito. Sul compito reìtero il perentorio ‘mai’. Sull’utilità pratica sono disposto al più blando ‘forse’.
Era goal, non calcio d’angolo. E adesso vado a lavorare, ci dovrà pur essere il superprecariofattelodasolo, salitina con pilstop crocefissione.
Caro Luca, vengo da “in sul cesso” proprio ora, dove mi sono finito, godendomelo assai (e non saprei quanto abbia inciso il luogo e l’attività precipua che colà vi si svolge) un gran bel libro di racconti che ha molto a che vedere con l’incomunicabilità (che poi, a pensarci bene, il tentativo di comunicare l’incomunicabilità è una piega assai profonda delle cose, come ogni ossimoro pretende). Roberto Bolano “Puttane assassine”. E’ ovvio che Federico è già tra i legenda, e ne riparleremo.
Ti ringrazio per la segnalazione che, come sai, è pratica molto gradita qui. A Bolaño vado girando intorno da mesi e mesi, senza mai decidermi a leggerlo. Chissà, magari questa è la volta buona.
grazie per la segnalazione: un buon lavoro non si rifiuta mai!
Purché sia buono davvero, dato che deve durare a tempo indeterminato… per tutta la vita… per l’eternità… Brrr!!
Grazie per queste parole, Luca. Ebbene sì, pensavo a Beckett. Penso a Beckett in maniera preoccupante, da un po’ a questa parte…
Ciao auctor!
Le parole son solo parole, tra il serio e il faceto, come ricordavamo del periodo aureo di ICL, quando si riuscivano a dire cose importanti alternandole al più puro cazzeggio.
Qui a cazzeggio si sta sempre bene, e qualche volta si cerca di dire anche qualcosa di importante. Per me è importante che sia uscito questo tuo libro, perché ho ben presente quanto te lo sei sudato. Ecco perché l’ho detto e ridetto, che è uscito Buon lavoro, anche cazzeggiando un po’.
Caro Luca, sono entrata da poco nell’universo dei blog come ti dissi alla presentazione di Federico Platania, e per curiosità ti sono venuta a cercare…
Scopro un blog molto ben curato e pulito e che ha per fondamento la lentezza come ragione alla lettura, mi trovo a mio agio subito.
E piacerebbe anche a me dire qualcosa insieme agli altri frequentatori.
Così se penso ad una lettura infernale, (ma forse vado fuori dal tema di Buon Lavoro), penso a Ionesco, a Bestie di Tozzi, a Gadda anche, che in quanto a incomunicabilità non era secondo a nessuno. E che per primo aveva intuito il “pasticciaccio” demoniaco che era Roma e l’Italia tutta, non ci si libera facilmente dagli anni 60.
Ciao Arianna, benvenuta nella bolgia blogghesca (che potremmo battezzare “blogia”). Federico è già passato di qua, tu anche: se spuntano Morozzi e Mellini facciamo tombola!
Puoi dire quel che vuoi, anche andando fuori tema, tanto qui il tema è molto ampio e poco vincolante. Ionesco lo conosco davvero poco, ma Tozzi e Gadda sono fra le mie letture da comodino, quelli che preferisco tenere vicino e spulciare ogni tanto. Tozzi in particolare è certamente un autore in cui il lato infernale (o oscuro che dir si voglia) del mondo è ben presente. Alcune sue novelle sono così dure da mettere paura. Gadda, va be’, è Gadda :-)
Alcune “lettere” maiuscole e minuscole ridentificano una parola, pensando bene di rasentaere un’altra ideologia, nonchè alzare il pulviscolo di un punto interrogativo, catapultato finalmente dentro la mente. Tutto ciò che crea disordine è una porta da aprire, dunque le parole “incomprensibili” sono più (da) leggere che pesanti o l’inverso.
nn ci ho capito nooooooooooooooooooo nn e quella ke cerco
ciaooooooooooo
[…] una lettura di Luca […]