Io sono il capro, fratello, e sono tuo fratello. I miei occhi vedono le cose che tu vedi e la mia bocca pronuncia le tue parole. Le mie interiora hanno la consistenza melmosa delle tue, e analoghe serpentesche sinuosità. Mangio il cibo che ti nutre, bevo alle fonti che ti dissetano. Il ventre di mia madre ti ha partorito, fratello, ed è per questo che tu sei mio fratello, ed è per questo che ti conosco così bene anche se tu mi disconosci, che ti amo anche se hai smesso di amarmi.
Ricordo quando mi confidavi la rabbia per i tuoi primi fallimenti. Eri debole, oppresso, infuriato contro un mondo che, dicevi, non ti capiva, non ti accettava, non ti dava strada. Sentivi di avere qualità eccelse, se solo qualcuno le avesse notate; sapevi di poter fare grandi cose, se solo qualcuno ti avesse ascoltato; eri sicuro di avere i numeri per sfondare, se solo qualcuno si fosse fatto da parte. Ma tutti si ostinavano a non notarti, a non ascoltarti, a non lasciarti passare. In quel tempo avrei dovuto scacciarti, avrei dovuto mostrarmi annoiato dalle tue lamentele e dai tuoi piagnistei. Avrei dovuto, ma non ne sono stato capace, e di questo ti chiedo perdono. Perché fu proprio allora, quando ti abbracciavo e ti asciugavo le lacrime, che hai iniziato a sospettare di me.
Le tue visite diventarono sempre più rare e sempre più brevi, fino a cessare del tutto. Ricordo bene che per avere tue notizie avvicinavo con pretesti ridicoli conoscenti comuni che non vedevo da tempo, sperando che tu li frequentassi ancora. Raccoglievo da loro i frammenti del tuo odio e li ricomponevo in un mosaico tetro di sospetto e di malignità. Andavi seminando sul mio conto dicerie malfamanti, mi accusavi di complotti oscuri a tuo danno, ma tu sai, hai sempre saputo che ciò di cui ancora oggi mi accusi non è altro che lo specchio della tua infamia, la strada più breve e più comoda per giustificare la tua inettitudine. Io sono per te l’artefice occulto dei torti che subisci, la causa plausibile della tua infelicità, il colpevole dei tuoi giorni grami. Tu mi accusi, fratello, per scacciare dalla tua mente le vere cause del tuo dolore: la tua piccineria, il tuo egoismo, la tua grettezza.
Ti ho cercato ancora per qualche tempo, ricordi? Ho tentato di incontrarti, di incrociare il tuo sguardo. Volevo capire fino a che punto mi odiavi e perché, ma sapevo anche che affrontarti a viso aperto significava mettere in pericolo il muro di bugie che avevi costruito attorno alla tua meschinità. Sapevo che se ti avessi parlato guardandoti dritto negli occhi avresti visto riflesso nei miei il tuo vero volto. Per amor tuo, per salvarti dalla visione letale di te stesso, ho preferito allontanarmi il più possibile da te. Avrei dovuto inseguirti, invece, afferrarti per i capelli e costringerti a guardarmi negli occhi. Non l’ho fatto, e anche di questo ti chiedo perdono.
Ho abbandonato la mia casa, il mio villaggio, la terra che ci ha visto crescere insieme, ma non ho trovato riparo. Hai stretto patti scellerati con antichi nemici comuni, li hai usati per spargere nel mondo le tue menzogne, per farne araldi delle tue calunnie contro di me. Ovunque io sia arrivato, una fama oscura mi ha preceduto, e nel sospetto da cui sono circondato vedo riflesso chiaramente il tuo rancore. Oggi io sono per tutti il capro, fratello, la causa di tutti i mali del mondo e dei fallimenti di tutti gli uomini. Se la grandine distrugge un raccolto io sono la grandine; se un bambino muore soffocato nella culla io sono l’aria che gli è stata tolta; se una vacca partorisce un vitello morto io sono il seme marcio che l’ha fecondata; se la peste flagella una città io sono l’untore; se la fame l’attanaglia io sono l’usuraio e l’accaparratore.
Adesso loro sono qui fuori, fratello mio, sono venuti a prendermi. Urlano a gran voce tutto il tuo odio, tirano pietre alle finestre e in tuo nome appiccano il fuoco alla porta. Presto riusciranno a travolgere le mie fragili difese. Entreranno, e in vece tua stupreranno mia moglie, uccideranno lei e i miei figli, faranno scempio dei loro corpi. Poi si avventeranno su di me, mi mozzeranno mani e piedi, mi squarceranno il ventre, ne strapperanno via i visceri e ti presteranno i loro occhi inferociti perché tu mi veda morire lentamente, fra spasimi indicibili.
Morirò contemplando il fondo della tua anima attraverso gli occhi dei miei carnefici. Capirò, alla fine capirò quanto profondo e devastante è l’abisso che separa ciò che credi di essere da ciò che sei, e vedrò tutta la desolazione del tuo cuore. Sul tuo volto compariranno i segni di un terrore nuovo, non appena ti renderai conto di essere rimasto solo ad affrontare la tua pochezza. Comprenderai in un istante la terribile agonia che ti aspetta, l’agonia di dover vivere ancora a lungo sapendo di essere tu la causa dei tuoi fallimenti passati e futuri. Allora mi chiamerai per nome e mi pregherai di tornare da te, di abbracciarti e di asciugarti le lacrime. Avrò pietà di te, fratello, e il tuo urlo senza speranza sarà l’ultima mia pena in questa vita.
provo un senso di colpa verso il senso di colpa
va be’, dài, non è mica colpa tua.
Espiamo con calma
E teniamoci addosso le nostre colpe, che gli altri ne hanno già abbastanza delle loro.
su su..sappiamo bene che quel capro lì è un piagnone, rancoroso e depresso (o, altrimenti, è un masochista)