In prossimità dei poli sono flotta imperiale, perfida trappola tesa ad ogni vascello che ai limiti del mondo s’avventura. Di continenti vasti e impenetrabili io sono il Re, monarca assoluto e invitto, continente io stesso, io medesimo mondo, io universo, io tutto. Altrove sono un piccolo servo cubico e fedele, pronto a tuffarmi nei calici degli accaldati, felice di offrire la mia vita per loro, qual navicella trasparente su minimi flutti colorati e alcolici, naufrago nelle gole dei gaudenti estivi.
I bicchieri viaggiano a decine, dai banconi alle labbra di centurie assetate. Miriadi di piedi calzati alla leggera invadono la piazza ancora bollente, scacciando il sole dietro la torre dell’orologio. Camerieri di cento nazioni servono in silenzio gli assisi, mentre la folla degli appiedati diffonde nell’aria trilli di gioie e di bracciali dorati.
So essere gigante e nano, massa durissima e fragile velo, montagna enorme, minuscolo cristallo. Puro lo sono nella mente degli uomini soltanto, la mente che scarta l’impurità come se fosse vergogna e disonore. Al contrario, amo le scorie e i rifiuti del mondo, la polvere, il polline che ha fallito il bersaglio, la roccia che frana, i corpi esanimi dei soldati. Tutto mi contamina e tutto io conservo, memoria profonda della vita sul pianeta.
Poco distante, sul lungomare, s’accendono le automobili, coprendo di ruggiti a sei cilindri il basso chiacchiericcio delle onde. Le carrozzerie metallizzate riflettono purissima la luce dei lampioni. Dame e cavalieri rivestiti d’oro e seta ridono negli abitacoli scoperti, capelli scolpiti e denti luminosi. Non un granello di polvere osa velare il loro splendore, né l’ombra di un ricordo triste o di un antico sbaglio increspa le belle fronti distese. Sciama il corteo regale alle cene, alle danze.
Amo distendermi di notte sulle strade e sui campi, per donare visioni incantate al risveglio dei paesi. Avvolgo rami e foglie in trame di vetro rilucente, e attendo che l’alba di rosa le colori e che il sole meridiano le disciolga. Amo precipitare sulla terra, minuta galaverna o grandine impetuosa. Amo la vita e l’ombra, il gelo e la passione, la notte e l’impazienza. Amo d’amore ardente tutto ciò che sfioro, che rivesto, che inglobo.
La piazza si è svuotata dei festanti, e un cameriere scuro di volto e di livrea siede a un tavolino ormai deserto. Roteando con precisione da giradischi un esile cucchiaio di plastica, crea piccoli gorghi in un calice lasciato mezzo pieno: è incantato dal tintinnio del ghiaccio che va morendo contro le pareti del bicchiere. Poco lontano, una donna vecchia e traballante fruga i cestini ricolmi di rifiuti. Vaglia con cura il contenuto, e di tanto in tanto lascia cadere in una borsa di plastica una lattina non del tutto schiacciata, un dischetto di cartone, un fermacapelli con la molla rotta.
Eppure nelle infinite lingue dei popoli non resta di me che un piccolo grumo di lettere, una parola sola. Che ordigno gelido e stolto, il linguaggio! Come può una parola sola contenere la molteplicità di forme e di intenzioni con cui mi manifesto al mondo? Io sono despota e schiavo, insidia mortale e culla della vita, fedele e traditore, assassino spietato e madre premurosa. Cosa resta di tutto questo nella parola che gli uomini usano per indicarmi? Ah, la parola, stoltezza degli umani!
La vecchia si sposta al centro della piazza e posa a terra la borsa rigonfia di reliquie. Alza gli occhi al cielo, muove le labbra: forse sta recitando una preghiera.
O natura, natura, madre castissima di ogni rifiuto organico e minerale, volgi il tuo sguardo benigno a questa notte afosa. Guarda l’oscuro servitore perduto nelle spirali di un aperitivo ormai disfatto. Guarda la borsa di plastica ricolma di rifiuti sottratti per pochi anni alle discariche. Guarda, e tutto benedici. Non togliere agli umani la dolce afasia del linguaggio e non svegliare i gaudenti dal loro sogno di purezza e di gioia. Quanto a me, lascia che io raccolga e custodisca per qualche tempo ancora gli scarti della vita che si rincorre e si cela alla rovina. Poi, quando verrà la fine, concedimi di avvolgere in un gelido sudario la piazza, la città, la provincia intera. Un velo di cristallo sul volto della terra, fino al risveglio di un nuovo creatore.
nice ice (oh yeah! very, very very very nice)
thank you gabryeah!
Nota a margine: sfogliando wikipedia, ho notato che nelle lingue nordiche la parola ghiaccio è spesso un monosillabo: ice in inglese, eis in tedesco, is in danese e norvegese, ecc. Scendendo a sud, invece, si passa ai bisillabi: glace in francese, hielo in spagnolo, gelo in portoghese. In kiswahili si dice barafu, tre sillabe.
Tutto ciò avrà senz’altro un profondo significato, ma così profondo che non arrivo a coglierlo…
eh ma che freddo. E il global warming dove lo metti? (tutto quel povero ghiaccio che si sta sciogliendo in Antartide…)
ciao!
kalle
ti dirò, kalle, i 38 gradi centigràdi raggiunti a Bologna (con umidità attorno al 99.5%) non sono del tutto estranei al soprastante componimento :-)
Insomma, la glaciazione futura e’ una speranza. Capisco!
Una specie di rito propiziatorio, sì, ma poco efficace: anche oggi siamo sui 35 gradi.
*Nota a margine: sfogliando wikipedia, ho notato che nelle lingue nordiche la parola ghiaccio è spesso un monosillabo: ice in inglese, eis in tedesco, is in danese e norvegese, ecc. Scendendo a sud, invece, si passa ai bisillabi: glace in francese, hielo in spagnolo, gelo in portoghese. In kiswahili si dice barafu, tre sillabe.
Tutto ciò avrà senz’altro un profondo significato, ma così profondo che non arrivo a coglierlo…*
Perché al nord il ghiaccio rimane compatto, mentre scendendo più a sud si scioglie.
p.s.
bello
Glace è un monosillabo
occazzo! (trisillabo) Grazie del bel tratto di matita blu, Carmela.
Può essere, Maria, può essere. Pensavo anche che al nord (parlando dell’emisfero boreale, ovvio, ché in quello australe è tutto il contrario) il ghiaccio è un’esperienza, mentre al sud è una speranza. L’esperienza s’accontenta di poche parole, e brevi, mentre la speranza ha bisogno di parole lunghe e distese. Inferno, tre sillabe; paradiso quattro, per dire.
non è questione di matita blu, è questione di ne sutor ultra crepidam… Che belli quelli che se ne stanno al posto loro, e non fanno mai il passo più lungo della propria gamba…
a me tutto questo ghiaccio fa pensare alla repubblica boreale… deformazioni..
saluti!
mel