In letteratura odio il sentimentalismo, l’espressione mielosa, il melodramma. Sono tutti modi scadenti per semplificare il complicatissimo groviglio del dolore umano. La verità è che di fronte al dolore le parole mancano completamente, non si sa cosa dire. Certo, ci sono frasi di circostanza collaudatissime: non ci pensare, vedrai che passerà, ci sono passato anch’io, ma sono solo modi per mascherare l’evidenza che in quel preciso momento non si sa proprio cosa dire.
Lo sa bene Hugo Hamilton, pare, dato che ha scritto un libro in cui la lingua del dolore è il silenzio. Oggi sono venuto a sapere quasi per caso che una persona cara non sta tanto bene. Avrei voluto dirle un sacco di cose, tipo non ci pensare, vedrai che passerà, ci sono passato anch’io, ma alla fine non le ho detto niente. E allora, in cambio di quello che non ho detto, le dedico questa lettura.
Hugo Hamilton, Il cane che abbaiava alle onde, Fazi 2004, traduzione di Isabella Zani.
The specked people, titolo originale del romanzo, significa letteralmente gente maculata. I figli di Jack Hamilton e di Irmgard Kaiser erano maculati perché il padre era irlandese e la madre tedesca, ma lo erano anche perché non potevano parlare inglese come i loro coetanei, ma solo irlandese e tedesco, per via del fanatismo nazionalista del padre.
Così il piccolo Hugo Hamilton veniva punito in irlandese e consolato in tedesco, e i ragazzini esaltati, che avevano imparato a odiare i tedeschi dai film e dai giornalini a fumetti scritti dai vincitori della guerra, lo insultavano e lo picchiavano in inglese. C’è poi una quarta lingua, quella del silenzio, ed è la lingua della resistenza al dolore e alla violenza. È la lingua in cui Onkel Gerd, uno zio della madre, rispose ai nazisti che volevano costringerlo a prendere la tessera del partito, e la madre insegna al piccolo protagonista a usare quella lingua con chi gli usa violenza. Può darsi che la vocazione di scrittore di Hugo Hamilton abbia qualcosa a che fare con questa babele infantile.
La lingua è anche uno degli aspetti più attraenti del romanzo. L’alternanza continua di tempo presente e passato remoto replica magistralmente un procedimento naturale della memoria, in cui gli eventi più incisivi sono rivissuti, mentre il tessuto connettivo dei ricordi e gli episodi marginali sono raccontati.
Mia madre dice che abbiamo cominciato a fare cose senza senso. Un giorno Franz si mise dei sassi nelle orecchie (…) Maria si infilò un pisello gigante su per il naso (…) Poi io comiciai a seppellire in giardino tutti i cucchiaini d’argento con le iniziali FK di mio nonno sopra, e mia madre dovette trovare il tesoro. Lei ride e dice che per un po’ spera che non facciamo altre cose stupide.
Il discorso indiretto prevale di gran lunga sui dialoghi, quasi che il ragazzino di allora, raccontando cose successe nella sua casa maculata, traducesse per gli ascoltatori frasi pronunciate originariamente in tedesco o in irlandese.
Il racconto è decisamente realistico, quasi mai intaccato da sbandate sentimentali o liriche. I patimenti dell’infanzia non sono utilizzati come leve per commuovere, né come occasioni per calare sull’innocente lettore massime morali o suggerimenti pedagogici. Hamilton pare rivivere la sua infanzia, più che raccontarla, e mentre si vive non si riesce a trarre conclusioni o insegnamenti per il futuro, specialmente quando si è piccoli. «Quando sei piccolo non sai niente», esordisce il narratore, e per tutto il romanzo si mantiene il più possibile fedele a quell’ignoranza, rinunciando a spiegare.
L’unica operazione visibilmente ermeneutica è l’attribuzione dei numerosissimi e dettagliati ricordi alle dicotomie etiche e morali tipiche dei bambini, nelle quali il lettore non fatica a riconoscersi. Ci sono le cose permesse e quelle proibite, azioni buone e azioni cattive, premi e punizioni. Così la guerra è iniziata perché gli inglesi avevano un impero e anche i tedeschi ne volevano uno, ma questo non era permesso.
Nel romanzo Hamilton utilizza la sua quinta lingua, quella della scrittura. Se il silenzio è la lingua della resistenza al dolore, la scrittura è quella che consente di parlarne al momento giusto, e anche questa ennesima lingua, come il tedesco e come il silenzio, è una lingua materna:
Di notte riesco a sentire mia madre di sotto in cucina con la macchina da scrivere. Spinge le lettetteretté da sola, intanto che mio padre legge in salotto. Le lettere volano fuori e colpiscono la pagina più in fretta di quando si parla. Scrive e scrive lettettereté perché c’è una storia che non può raccontare a nessuno, neanche a mio padre. Non si può aver paura del silenzio, dice lei. E le storie che si devono scrivere sono diverse dalle storie che puoi raccontare guardando le persone in faccia, perché sono più difficili da spiegare e devi aspettare il momento giusto. La sola cosa che può fare è scriverle sulla carta, per farcele leggere più avanti.
Sulla traduzione non dovrei dire nulla, non tanto perché non sono un tennico, quanto perché ho avuto il piacere di conoscere Isabella Zani di persona, nonché di esprimerle stima e simpatia per motivi che esulano completamente dal suo lavoro. Però come si fa a non dire che Isabella Zani ha donato a Hugo Hamilton la sesta lingua? Va detto, va detto assolutamente, e chi leggerà il libro capirà che non lo dico per piaggeria.
Tags: Fazi, Hugo Hamilton, Il cane che abbaiava alle onde, Isabella Zani, parole e cose
woof woof! glu glu glu…
volevo solo abbaiarti che ho ripubblicato da me il tuo componimento DADIsta… zzzz :)
benefo’, ti s’è allagata la cantina?
grazie, zop. Devo dire che la stendhaliana alternanza di rosso e nero gli dona molto.
no, volevo compensare la prolissità del post :P
ho appena letto il libro e anche il suo ‘to be continued…’ in The Sailor in the Wardrobe. Grazie per la bella recensione, concordo pienamente. Vorrei chiederti, dal momento che conosci anche la traduttrice, se sai il perchè del titolo dell’edizione italiana, grazie!