Le parole spesso parlano di cose

Ludwig WittgensteinChiedo venia all’improvvido lettore che nonostante le mie reiterate prove di demenza continua tuttavia a leggere questo blog, ma devo fare una cosa un po’ irrituale nella dinamica blogghica. Si tratta di questo: prendo un commento a un mio post e lo faccio diventare post. Lo faccio perché credo che questo commento sia un post potenziale di un blog che ancora non esiste.

Fatto questo, prometto che leggerò attentamente questo post, e che tenterò di commentarlo come merita. Essendo io notoriamente lento, se qualcuno lo commenterà prima di me non mi offenderò.

Il post di kalle b.
Tu dici, o letturalenta: «Ecco, io credo che le parole parlino sempre e soltano di loro stesse, non di cose. Le cose sono manifestazioni fenomeniche delle parole: togli la parola sogno e i sogni cesseranno di esistere. Il che non significa che tu e io smetteremo di sognare, sia chiaro, ma solo che non saremo più in grado di parlare di sogni»

qui non mi trovi d’accordo. Le parole spesso parlano di cose. Non sempre, ma quasi. Se elimini la parola sogno, credo proprio che la notte continuerai ad essere visitato da certe cose che approssimativamente corrispondono a quel che noi, qui ed ora, chiamiamo sogni. Forse sarebbe un po’ più complicato spiegarsi tra di noi (“sai, stanotte ho avuto un…, sì insomma, stavo a letto, ma poi mi sono addormentato ed ho visto certe cose…” etc.). Ma scommetto che a qualcheduno verrebbe in mente di usare un nome, per una roba del genere.

Vale il viceversa, no? Quando si scopre qualcosa di mai visto prima -diciamo una nuova specie di lucertoloni nel mezzo della foresta amazzonica, o un continente inaspettato- gli si trova subito un bel nome nuovo di zecca -diciamo Hypterodonte, o America. Ma quella cosa stava lì da prima eh. Non è che l’atto di nomina produce la sua esistenza. A meno di essere Dio in persona.

Insomma, per dirla alla Wittgenstein: le parole sono la superficie di un’acqua profonda. La superficie, certo, e di un’acqua assai profonda. Ma c’è una relazione, tra il fondo del mare e le onde che ci viaggiano su.

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9 Responses to “Le parole spesso parlano di cose”

  1. non sono in grado di sostenere una conversazione sulle parole a secco, so di filosofia e di linguistica più o meno lo stesso che di ortopedia: tuttavia penso che la lingua, in quanto primo aggregatore di gruppi umani, a mano a mano che perde le parole che la compongono faccia perdere porzioni d’identità a chi la parla. L’argomento secondo il quale le lingue evolvono, non regge se ciò che si perde non trova sinonimi…

    Insomma, non è tanto lo stabilire se le parole facciano esistere le cose, ma che quando si perdono i nomi delle cose, si perde frammenti di quel che siamo soliti intendere per “noi”.

  2. gabryella says:

    “la parola è la mia rappresentazione. io non dico ciò che è, ma è ciò che dico» (Remy de Gourmont – che non ha scritto proprio questo, ma quasi..)

    – “le parole non sono altro che una transustanziazione rovesciata del cosismo” (anonimo, evidentemente senza qualità)

  3. letturalenta says:

    mauro, la specializzazione in filosofia o in linguistica non serve: qui si chiacchiera, mica scrivono trattati. In effetti è vero che le parole formano anche l’identità di chi le usa, così come formano “comunità di parlanti” che si intendono (e si fraintendono) utilizzandole. Ed è vero che quando si estingue un linguaggio si estingue un modo di essere. Basterebbe pensare a quello che è successo in Italia con il declino dei dialetti.

    Forse io ho calcato un po’ troppo la mano sull’idea che, tolte le parole, le cose cessano di esistere. Sarebbe meglio dire che cessano di esistere in un dato modo per chi le chiamava con quelle parole. È vero che le cose esistono per conto loro, però io non sono sicuro che le cose che ‘stavano lì da prima’, come dice kalle, restino esattamente le stesse cose dopo che noi le nominiamo.

    Un continente che vaga alla deriva fra l’Atlantico e il Pacifico mi sembra cosa diversa dall’America, ecco. Non so se riesco a spiegarlo meglio. Quando gli uomini smetteranno di dire ‘America’ quello tornerà ad essere un ‘normale’ continente alla deriva.

    Wittgestein dice – dice kalle – che le parole sono la superficie di un’acqua profonda, e che c’è per forza una relazione tra la superficie e gli abissi. Secondo me la relazione è più o meno questa: la superficie è ciò che consente di iniziare la discesa negli abissi. Fuor di metafora, le parole ci consentono di tentare di raggiungere le cose. Riuscire a raggiungerle è naturalmente tutt’altro discorso.

  4. letturalenta says:

    gabryella, vedo ora il tuo commento. Poi magari ci penso su con calma, che adesso devo uscire. Cerco che ‘trasustanziazione rovesciata del *cosismo*’ dà da pensare :-)

  5. Luca, non mi era sfuggito tono bigger than life, e proprio ai dialetti pensavo, ricordando la definizione di Meneghello «le parole sono incavicchiate alle cose».
    Lo so che siamo d’accordo, ma da sbruffone quale sono, ho ribadito il mio interesse non per chi chiama America la zolla nomade, ma per il processo che fa pensare a un cheyenne di essere irlandese…

  6. sergio garufi says:

    molto bella la citazione wittgensteiniana di kalle.

  7. kalle b. says:

    Luca, capisco quello che vuoi dire.
    Riguardo a nomi, significati, continenti, mi viene in mente quella -secondo me bellissima- definizione di Ernesto Franco, nel suo libro “Isolario”: “sull’Isola dei Qui pro Quo, tutti si credono in continente”.
    Forse anche l’America e’ un’isola, chissa’. Certo e’ “qualcosa”, e continuera’ ad esserlo per un po’ (Non sbilanciamoci troppo, teniamoci sul vago).
    (a proposito, grazie per lo spazio, davvero.)

    Sergio, quella citazione la puoi trovare da qualche parte nel Tractatus. La scrittura di Wittgenstein a volte si apre in immagini e aforisimi sorprendenti. C’e’ una parentela stretta con certe scelte stilistiche di Musil e Kraus. Lo spiega bene Aldo Gargani nei suoi saggi su W.

    ciao, k.

  8. letturalenta says:

    Bellissima anche la citazione di Ernesto Franco: c’è dentro tutta la capacità di fraintendimento insita nel linguaggio. E su questo punto si potrebbe rilanciare ancora con il buon Wittgenstein, Tractatus, 4.002:

    “Il linguaggio traveste il pensiero. Lo traveste in modo tale che dalla forma esteriore dell’abito non si può inferire la forma del pensiero rivestito”.

    Come dire: dedurre da ciò che uno ha detto ciò che voleva dire è un casino pazzesco.

  9. ingombrante says:

    Mh… se le parole non creano cose indubbiamente le identificano, e nell’identificazione (procedimento personale e inesorabilmente modificante) è prevista la moltiplicazione.
    Semplicemente penso che creino altre cose.
    In fin dei conti cosa è una parola no?
    …e quante volte si sente “dimmi una cosa…” quindi anche la parola è una cosa.
    Effettivamente ri-leggendomi penso: ma cosa volevo dire?
    Nel de-finire non si finisce mai per farlo.

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