Conflessione sul precario Giorgio Manganelli

Giorgio Manganelli, tratto da www.compagnosegreto.it

Io avrei bisogno di lavorare su ordinazione: proprio il compito. E mi devono dare tema e termine di consegna e dimensioni del lavoro: e allora non ho più remore, e vado come un fulmine. In quei momenti ho l’idea di quel che potrei fare senza quella intima impotenza che mi frena. Mi pare che sia non poco lavoro, e soprattutto serio, e con una certa forza. [G.Manganelli. Tratto da Riga 25, Marcos y Marcos, Milano 2005, pag. 78]

Era un giovinotto di non molto buone speranze, il Manganelli che scriveva queste cose nel suo quaderno degli appunti. Trent’anni, una moglie e una figlia che non vedeva da tempo, un lavoro che non gli piaceva, scarse prospettive di miglioramenti a breve termine. Il suo primo libro sarebbe uscito undici anni dopo, nel 1964, pietra angolare di un edificio letterario che nel quarto di secolo seguente avrebbe assunto dimensioni ciclopiche.

Negli anni a venire, Manganelli avrebbe lavorato spesso su ordinazione, con collaborazioni a quotidiani e riviste, diari di viaggi su commissione, recensioni, e doveva andare davvero come un fulmine, a giudicare dalla massa di scritti che ha prodotto in quei campi. Perfino quello che per me è il suo capolavoro, Pinocchio, un libro parallelo, nacque al termine di un percorso aperto da un ignoto committente:

Pinocchio è uno di quei pochi libri che ho riletto anche a distanza di anni, molto prima di quanto pensassi di scriverne, che anzi non è stata un’idea mia. Mi è stato prima proposto di fare un commento, ci ho provato e non ci sono riuscito, poi mi hanno proposto una parafrasi e non ci sono riuscito, e allora ho chiesto di poter fare quello che veniva fuori, quello che sarebbe capitato, ed è nata la storia parallela. [G.Manganelli, La penombra mentale, Editori Riuniti, Roma 2001, pag. 110]

Che buffa cosa, sentire un mostro sacro della letteratura dire non ci sono riuscito, che è poi una versione aggiornata di quella intima impotenza che mi frena confessata dal trentenne ignaro dei suoi fulgidi destini futuri. Non riuscire, fallire, non provarci nemmeno, sentirsi inadatto, impotente: sembra il mio ritratto. Io credo che, quando una frase letta in un libro attira l’attenzione, colpisce fino a suscitare la necessità di trascriverla e di scriverci qualcosa sotto, è segno che quella frase parla con ragionevole esattezza di chi l’ha letta, prima ancora che di chi l’ha scritta.

L’intima impotenza di cui parla Manganelli, a mio avviso, non è una generica dichiarazione di incapacità, né un tentativo di captatio benevolentiae, né una lamentazione sull’inadeguatezza dei mezzi rispetto ai fini. Si tratta piuttosto dell’assenza di fini. Quei fini che lui vorrebbe delegati a ipotetici committenti ai quali rivolge una vera e propria supplica, che potrebbe suonare così: ditemi cosa devo fare e io lo farò, e lo farò anche bene, con serietà, con forza. I mezzi ci sono, manca il progetto, manca la direzione. Il problema non è andare, ché anzi si va come un fulmine, ma dove andare.

L’intima impotenza che frena gli slanci è la conseguenza di una condizione di incertezza, di insicurezza o – per dirla con una parola che oggi suona già abusata – di precarietà. Una condizione pericolosa, perché quando il futuro è incerto, quando non si sa bene dove andare, viene naturale invocare il committente, il potente, colui che può liberarci dall’intima impotenza con la promessa di una meta e di un porto sicuro. E i potenti, i proprietari del futuro e delle certezze, non aspettano altro. Offriranno con larghezza e generosità, a un prezzo che a loro tutto sommato sembra accettabile: la libertà di seguire le proprie inclinazioni.

Dalla padella alla brace.

E allora che si fa? Semplice! Si fa quel che fece Manganelli all’epoca della genesi del suo Pinocchio: «ho chiesto di poter fare quello che veniva fuori, quello che sarebbe capitato». Il che significa tornare al punto di partenza, ignorare il porto sicuro offerto dal potente e confidare solo sui propri mezzi. Significa rifiondarsi nella precarietà, nell’incertezza delle direzioni e delle mete. Con la non piccola differenza che stavolta la precarietà non è subìta, ma scelta.

Facile, no?

Mah! A me non resta che garantire al lodevole lettore che il titolo di questo post non contiene refusi, per poi ritirarmi a riflettere sulla maggiore delle mie disgrazie, ovvero che nel mio ingombrante bagaglio di colpe, mende, peccati, imperfezioni, errori, mancanze, delitti, macchie, magagne e crimini giace anche quello di non essere Giorgio Manganelli.

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7 Responses to “Conflessione sul precario Giorgio Manganelli”

  1. come lui però lasci che venga fuori quel che deve che, putacaso, è quel che serve.
    mica male.

  2. gabryella says:

    va là, marpione, che dove andare lo sai meglio tu di Manganelli (questa, naturalmente, non è una sviolinata – semmai, una conflautazione)

  3. sorvolando sulla flautazioni/flautolenze, osserverei
    1. che “l’impotentia” scribendi del Manga non consiste nel non sapere dove andare, ma perché (motivazione).
    2. a 30 anni era Veltroni sputato.

  4. Eh sì, ci sai proprio fare con la penna (oggi diventata il dito sulla tastiera). Complimenti. Ti accompagna sempre una quieta, sorniona, naturalmente lenta, ironia.

    Lo sapete che Luca è anche un fotografo molto bravo? Lo vedrete il 25 luglio (data ancora una volta storica) su vibrisse.

    Bart

  5. michele says:

    Bravo per i due aspetti. (non mi va di specificare sono pigro e desideroso di evasione, comunque un pò “balistica discenditiva” bravo.) Sò che non si deve fare, ma lo farò, cioè segnalarti un sito. Con ogni mia ( e come ogni mia)previsione errata, tu magari avrai già tutto visionato, però vorrei proprio all’insaputa della tenutaria, farti-farvi, fare un giro. Si tratta (difficile usare questa parola) di Paola Lovisolo, un poeta. Nel B. 900 ha pubblicato, (2003- II n.) li gia qualcosa. Il blog è nevedicarne.

  6. tin says:

    Grazie Italia! de tutti cuore, grazie!

    un argentino

  7. letturalenta says:

    (Ma tu guarda, un argentino vero!)

    Grazie all’Argentina, tin, che ha messo trenta minuti di supplementari nelle gambe dei tedeschi. Diciamo che fa pari e patta con quel gol di Caniggia a dieci minuti dalla fine, nel 1990…

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