[dtfn] III – Sociologia

(Il manoscritto ritrovato di letturalenta. Frontespizio e indice)

Saku Paasilahti: De te, fabula narratur (1999), tratto da http://rikart.lib.hel.fi/Noi racconti esistiamo tutti simultaneamente, da sempre. Alcuni hanno avuto la fortuna di essere trascritti su adeguati supporti, altri no; alcuni hanno dimenticato come si leggono gli uomini, o si sono stancati di farlo, mentre altri continuano infaticabili da migliaia di anni; ci sono racconti altezzosi che schifano determinate letture, e quelli più alla mano, che leggono di tutto; una volta ne ho incontrato uno timidissimo: affermava di preferire di gran lunga andare eternamente alla deriva, piuttosto che scrutare le intimità della gente. Ci conosciamo più o meno tutti e viviamo in società, anche se non di rado càpita che si formino combriccole e circoli esclusivi. Non mancano le antipatie, alcune personali, altre di partito: le tragedie, ad esempio, mal sopportano la compagnia dei poemi cavallereschi, da esse ritenuti dispersivi e poco profondi; le novelle carnascialesche accusano le commedie di moralismo e bigotteria, e sono da queste a loro volta giudicate frivole e inaffidabili; i romanzi psicologici non vedono di buon occhio quelli naturalistici, e raramente un racconto poliziesco frequenta un racconto fantastico. Va detto però, a onor del vero, che le differenze e i contrasti non ci impediscono di formare una comunità tutto sommato pacifica e coesa, e tutti ci impegnamo a preservarne le tradizioni e a difenderla dalle insidie.

La causa più diffusa di malumori e incomprensioni è la quantità di letture compiute, che da noi sono una misura di prestigio sociale e autorità morale. (Colgo l’occasione per una rapida digressione utilitaristica, raccomandandomi al tuo buon cuore perché tu non esiti a parlare bene di me ai tuoi vicini amici e parenti, in modo che io possa superare le venticinque letture, che – a causa di un romanzo italiano che non nomino – costituiscono nella nostra società la soglia della miseria morale e del disdoro.) Due anziane signore greche, ad esempio, vanno continuamente in giro a braccetto vantandosi che ciascuna di loro ha letto più gente di tutto il resto della letteratura messo assieme, e che la loro conoscenza dell’umanità sarà per sempre ineguagliabile. Poverette! non ti dico quante beffe, ischerni, lazzi e carnevali ricoprono le loro schiene! Eppure è impossibile negare che molti le deridono per invidia, più che per naturale antipatia. Le molte barzellette che circolano sul loro conto, infatti, non possono annullare l’evidenza dei dati statistici: centinaia e centinaia di edizioni in tutte le lingue del mondo; versioni antichissime preziosamente rilegate, e conservate con ogni cura in prestigiose biblioteche; frotte di imitazioni e parodie che si affollano loro intorno – simili a nugoli molesti di clientes latini – per carpire anche solo un opaco riflesso della loro fama; monumentali commenti; oceaniche edizioni critiche; feroci dispute fra opposte e capziose accademie; e infine le innumerevoli citazioni, il segno inalienabile della gloria letteraria, il sogno segreto di ogni racconto.

Ah, poter essere citato un giorno! darei tutte le mie virgole e i miei accapo per una sola citazione! Non una citazione qualsiasi, sia chiaro (non vorrei fare la figura del mendicante), ma una citazione letteraria con tutte le carte in regola. Essere citati in un commento o in una recensione è quasi imbarazzante, tanto è cosa comune e plebea. Ben diverso è ritrovare una parte di sé in un altro racconto: il profilo di un personaggio peculiare; un tratto cospicuo di trama; un richiamo riverente a una mia geniale invenzione; l’imitazione ammirata e non parodistica del mio stile unico e irripetibile; l’incastro abile e spregiudicato di una mia frase celebre in tutt’altro contesto narrativo. E su, su! verso un tentativo di proseguire la mia storia laddove l’ho interrotta, o di completare un’ardita trasposizione teatrale. Più in alto ancora! fino all’omaggio supremo di una copia pedissequa, lettera per lettera, ad opera di laboriosi monaci benedettini! O cieli argentei dei più coronati capolavori, apritevi! e accogliete uno di voi sotto le vostre luminose volte! O Ulisse, padre di tutti gli eroi! lascia che i tuoi versi immortali si uniscano alla mia prosodia in generoso amplesso, per generare la fonte eterna di ogni possibile letteratura!

(.!.)

Ehm… temo di essermi lasciato prendere la mano da qualche infida figura retorica. Dannate civette! Vivono acquattate negli snodi e nei raccordi dell’intreccio e balzano fuori quando meno te l’aspetti, melliflue e sinuose, provocanti e cattivanti quanto basta per cedere alle loro lusinghe. Si divertono a disarticolare il registro narrativo, ridono fino al belico quando riescono a mutare un tono colloquiale in enfatico, o a degradare una scena di grande pathos a una prolissa tiritera. Non sono malvage, no, ma burlone e irriverenti fin dai nomi che portano: climax, ipotìposi, apòstrofe, sinèddoche, chiasmo, litote, eufemismo, anàfora, sinestesia, antìtesi, metafora, prosopopea, metonimia, iperbole, epifonema, ossìmoro, paronomasia, anastrofe, epanalessi, anadìplosi, enàllage, asìndeto, ipàllage, polisìndeto, ironia, e chissà quante altre che ora non ricordo. Nei loro fanciulleschi sollazzi invertono l’ordine naturale delle parole: le ripetono, le incrociano; separano arbitrariamente lemmi affini e accostano i dissimili; nascondono le congiunzioni da una frase e le spargono a piene mani sulla successiva; riempiono di punti esclamativi periodi altrimenti placidi e sonnacchiosi.

Basta un istante distratto e una non piccola squadra di codeste placide furie balza sul testo e lo stravolge. La prima s’avanza, un’altra traccheggia, s’avanza la terza. Chi spinge, chi smena, chi allìttera, chi osserva da lungi, chi fugge! La vela naviga, la botte mesce, la penna verseggia, l’aria punge, il ghiaccio bolle, la terra si sgomenta. Son troppi, aita, son troppi! Troppi tropi stroppiano. Non c’è salvezza, né franchigia, né riparo, né usbergo, né asilo. Malandrino! rendimi quel pronome! Dlin-dlon, gli aggettivi ardito e pingue sono pregati di ritornare accanto ai sostantivi loro assegnati, grazie. Sintassi a ramengo ormai, ormai, ormai… han vinto, lo sento, avverbi in luogo di congiunzioni e su e dopo, ma vicino, poi quando se tanto, di affatto per cui sempiterno laddove arcigno vasca di meno alludendo nutria tragicamente mangovèlberi.

!?

Dannate civette!

6 Responses to “[dtfn] III – Sociologia”

  1. gabriella says:

    Sono una nota a piè di pagina e sono molto intimidita O__^

  2. letturalenta says:

    Splendido? A me sembra matto come un coperchio, questo racconto.
    Ciao nota a piè di pagina. Io sono una glossa pellegrina: vago di pagina in pagina cercando un margine ove posarmi in via definitiva.

  3. anoroll says:

    Ribadisco lo splendido, e visto il tipo di racconto, matto come un coperchio come tu dici (poi me lo farai vedere un coperchio matto), è evidente che non ha alcun senso starne a discutere con me ;-)

  4. letturalenta says:

    Il coperchio, uno che gli piace stare su una pentola d’acqua bollente per me è matto come un cavallo. Comunque, se proprio ti sembra splendido, non dimenticarti della sua digressione utilitaristica :-)

  5. anoroll says:

    … a riguardo del coperchio mi hai convinta ;-)

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