L’imbianchino

Post imbiancatoSono un imbianchino o decoratore o tinteggiatore che dir si voglia, e quindi è ragionevole dire di me che sono uno che tinteggia o decora o imbianca, ma fra tutte le parole che possono definire me o il mio lavoro io preferisco di gran lunga imbianchino e imbiancare, per via di quell’esplicito riferimento al bianco, parola carica di significati simbolici, emblema del vuoto, del gelo, dell’assenza, ma anche della purezza e soprattutto del candore.

Il candore: un modo di ricezione dell’esperienza e della conoscenza che, se praticato con onesta pervicacia, può sfociare nella più pura stupidità. Ho scritto pura d’istinto, senza pensarci su. Se questo testo fosse sottoposto a un accurato lavoro redazionale, quel pura, così vicino al purezza precedente, sarebbe quasi certamente sostituito da un sinonimo, per esempio cristallina. Tuttavia, a mio modesto avviso, questa sostituzione non sarebbe del tutto opportuna. Infatti, mentre esiste una relazione intuitiva abbastanza forte fra candore, purezza e stupidità, non ce n’è una altrettanto forte fra candore, cristallo e stupidità.

In primo luogo il cristallo non è candido, né tantomeno alleato del candore. Anzi, la sua trasparenza mi sembra alludere in modo alquanto preciso a un certo licenzioso voyeurismo. Un materiale che lascia vedere attraverso di sé mal si attaglia a un accoglienza stuporosa della realtà. I brani di mondo che giungono agli occhi dopo aver attraversato il cristallo sono in un certo senso previsti, dato che al di là del cristallo – fatta salva una piccola deformazione dovuta alla rifrazione della luce – erano praticamente identici. Non è un caso, credo, che quando si inaugura una statua essa venga ricoperta da un candido panneggio e non da un velo trasparente: quando il panno è lasciato cadere la statua appare all’improvviso e gli astanti, vedendola letteralmente per la prima volta, si lasciano andare a sguardi ed esclamazioni colme di stupore. E lo stupore – come la prossimità etimologica rivela – è parente stretto della stupidità.

Mi rendo conto che sto divagando e che è tempo di tornare al tema centrale di questa mia riflessione. Ecco, la riflessione. Il cristallo, se trattato con opportuni procedimenti, diventa specchio, dunque riflette. Il cristallo è pertanto emblema dell’intelletto umano, mentre il bianco, come dicevo, è simbolo del vuoto e dell’assenza, anche dell’assenza di riflessione e di intelligenza. E laddove manca l’intelligenza, ecco che la stupidità può finalmente prendere il sopravvento.

In quanto imbianchino, io adoro in modo speciale la stupidità. Potrei dire senza timore di apparire presuntuoso che io sono in un certo qual senso il sacerdote della stupidità. Ovunque appaiano segni, graffiti, scritte, parole, io intervengo con rara maestria e sollecitudine ad abolirli, facendoli sparire sotto una provvidenziale e caritatevole mano di tinteggiatura. La mia pennellessa intinta nella biacca purificatrice è in grado di cancellare per sempre qualsivoglia temeraria violazione di una superficie pura. Non a caso il mio comune di residenza mi ha incaricato di restituire ai palazzi del centro la retta tinta unita, ripetutamente interrotta da scritte oscene tracciate con vernici chimiche o carboncini: Ti amo, Dio c’è, Faccio pompe da brivido, Governo ladro. Non c’è annuncio, messaggio, parola, grido o segno che possa resistere alla forza redentrice del mio pennello.

Dove l’uomo tenta di lasciare una traccia della sua capacità di esprimersi a parole, un segno del suo intelletto, io passo a ripristinare l’ordine supremo del vuoto e dell’assenza di segni, il dominio primordiale della stupidità metafisica. Odio le notti stellate, il nero supremo volgarmente frammentato da quegli inutili puntini argentati. Se io fossi Dio, passerei una buona mano di nero su quelle luci oscene, e lascerei che la notte avvolgesse il mondo fino a farlo sparire. Odio i libri, che potrebbero essere purissime risme di carta perfettamente bianca, se non fosse per quei grafismi neri che le ricoprono come insetti immondi. Se fossi un erudito, carpirei la fiducia dei bibliotecari per raschiare via l’inchiostro da tutti i libri del mondo.

Una volta ho consegnato il manoscritto di questo mio racconto da imbianchino a un critico letterario, chiedendogli un parere. «Guarda» mi ha risposto dopo qualche giorno «non sarebbe neanche malvagio, però ha seri problemi di verosimiglianza: non si è mai visto un imbianchino lanciarsi in riflessioni filosofiche, né discettare di etimologia. Il lettore medio si aspetta che l’imbianchino sia una persona non particolarmente colta. Anzi, si aspetta che sia alquanto grezzo, una figura di popolano, ecco, magari anche un po’ sboccato e volgare. Forse sarebbe meglio cambiare la professione dell’io narrante, farne, che so, un pittore o un artista. Credo che il lettore sarebbe propenso ad accettare certi ragionamenti da un artista. Ma da un imbianchino… suvvia…»

Si può essere più stupidi di così?

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6 Responses to “L’imbianchino”

  1. zop says:

    un imbianchino che si è lanciato in questioni di politica c’era haimè… mein kempf il suo libro. z

  2. letturalenta says:

    brrrr, che paragone inquietante, zop… Giuro che questo mio scombinato imbianchino è molto più innocuo di quello là!

  3. gabryella says:

    non saprei spiegarne le ragioni, ma questo tuo scribiaccatore (custode del candore, cassatore del segno, alfiere del nulla) m’ispira un’imbarazzante solidarietà..

  4. letturalenta says:

    Scribiaccatore mi piace, e apprezzo sinceramente la tua solidarietà con lui, condannato a comunicare solo eliminando le tracce dell’altrui passaggio.

  5. Non credete che tutti gli imbianchini siano ignoranti!

  6. Marco says:

    Magari potrebbe cambiare mestiere pure il “critico”.

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