Posts Tagged ‘scrittura’

La scollatura della Marisa

Sunday, September 4th, 2011

C’è modo e modo per dire le cose. Nella frase che precede questa, per esempio, il lettore scafato ne avrà senz’altro riconosciuti due: l’indicativo e l’infinito.

L’indicativo è il modo gentile e amichevole del colloquio, delle gite domenicali, delle chiacchiere pomeridiane al parco: sono andato al cinema con la Marisa e non ho visto il film, ma ho tenuto gli occhi inchiodati alla sua scollatura per tutto il tempo. Questo è il modo prìncipe della prosa, il modo in cui miliardi di individui dalla notte dei tempi hanno potuto esprimere tutto ciò che è quotidiano, familiare, rassicurante da un lato, ineluttabilmente noioso dall’altro.

L’infinito, al contrario, è il modo grazie al quale noi bipedi loquaci possiamo partire per la tangente, sognare, immaginare mondi alieni, fantasticare, è cioè il modo che ci consente di evadere dall’indicativo, di accantonare l’opprimente prosaicità quotidiana a favore di un tempo nuovo, dilatato, un po’ perso fra le nuvole: Oh, andare al cinema con la Marisa e non vedere il film, ma tenere gli occhi inchiodati alla sua scollatura per tutto il tempo!

Che il congiuntivo sia vagamente ecclesiastico e burocratico è un pregiudizio. Certo, la sua variante esortativa, parente stretta dell’imperativo, ricorda troppi professorini col ditino alzato e istiga alla ribellione linguistica, un po’ come il gesso che stride sulla lavagna, ma ciò non toglie che il congiuntivo sia anche tutto l’opposto, cioè un modo mite, incerto, incline al rossore e alla ritrosia, incapace di concludere, dubitativo, forse bisognoso di incoraggiamenti o di abbracci materni: E se andassi al cinema con la Marisa e non vedessi il film, ma tenessi gli occhi inchiodati alla sua scollatura per tutto il tempo?

Inguaribilmente burocratico è invece il gerundio, un modo che fin dal nome odora di timbri, archivi e ugge impiegatizie. Avendo un carattere pedante, essendo occhialuto e di natura subordinata e parassitaria, il gerundio non è abbastanza autonomo per dire qualcosa di suo, ma ha sempre bisogno di una principale a cui appoggiarsi: Andando al cinema con la Marisa e non vedendo il film, ma tenendo gli occhi incollati alla sua scollatura per tutto il tempo. Manca qualcosa, nevvero?

Il condizionale è ritenuto universalmente, e a ragione, il re dell’ipotetico. Non c’è modo migliore per dire ciò che potrebbe essere o che sarebbe potuto essere stato e, proprio per questo suo commercio con le congetture e le supposizioni, il condizionale ha la postura a un tempo mesta e desiderante degli insoddisfatti: Andrei al cinema con la Marisa e non vedrei il film, ma terrei gli occhi inchiodati alla sua scollatura per tutto il tempo.

C’è modo e modo per dire le cose e forse dovrei ancora spendere due parole sull’ambiguità del participio o sulla depressione dell’imperativo, ma dopo tutto, a parte il modo, quello che volevo dire è che la scollatura della Marisa è un film meraviglioso.

Pirandello

Monday, January 3rd, 2011

Per sopravvivere bastano dieci o dodici parole: ho fame; ho sete; lasciami solo; fottiti; baciami; è stato bello. Per vivere decentemente ne servono quattro o cinquecento al massimo. Per scrivere bisogna manovrarne parecchie migliaia, per via del fatto che la parola scritta non può avvalersi dei numerosissimi significanti emessi dal corpo umano durante una normale conversazione a quattr’occhi.

Dev’essere questo il motivo per cui il sagace Pirandello quella volta disse che la vita si vive o si scrive.

Comunicazione

Saturday, October 16th, 2010

bibliotecaE poi c’è questa faccenda della comunicazione. Un testo scritto, si sente dire spesso, è un messaggio, quindi anche un romanzo, una poesia o un racconto sono un messaggio con tanto di mittente (l’autore), canale di trasmissione (la scrittura) e destinatario (il lettore), e magari anche uno scopo ben determinato come, che so, trasmettere una visione del mondo, erudire il lettore sul senso ultimo della vita, mostrargli il lato oscuro della forza, cose così.

Ora, se osserviamo attentamente una persona che legge poesia o prosa narrativa, non tarderemo ad accorgerci che è letteralmente fuori di sé: non fa caso ai rumori circostanti, il suo volto assume espressioni del tutto irrelate a ciò che le accade attorno, e la vediamo trasalire (cioè risalire all’improvviso in sé stessa) se qualcuno le tocca una spalla. La persona che legge non sembra davvero il soggetto più adatto a ricevere e decifrare un messaggio.

Ma anche il mittente non è messo molto meglio. Parafrasando Rimbaud (e forse citando Blanchot, ma non mi ricordo, e in fondo chissenefrega), dico che chi scrive è un altro, frase che può essere interpretata in almeno due modi. Il primo, diciamo sociale, è che chi si accinge a mettere per iscritto una storia o un proprio profondissimo pensiero, in realtà ha ricevuto da altri — le comunità di cui fa parte — tanto il contenuto della sua opera quanto la lingua in cui la scriverà: chi scrive trascrive. La seconda interpretazione, diciamo psicologica, è che l’io scrivente è altro dall’io biografico: la persona che scrive, quella in carne e ossa, non può passare tal quale sulla pagina, ma è costretta a utilizzare la mediazione del linguaggio, con tutti i suoi tic, pregiudizi, posture stilistiche, doppi sensi e altre ambiguità. Può un personaggio così gravemente alienato trasmettere un messaggio preciso?

Sia chi scrive sia chi legge, insomma, non è nelle condizioni migliori per comunicare, ma anche il mezzo prescelto per l’ipotetica trasmissione del messaggio, la lingua scritta, non è un gran mostro di precisione. Nel suo libro Una storia della lettura Alberto Manguel cita il più antico esempio di scrittura: due sassi rinvenuti a Tell Brak, in Siria, di forma vagamente ellittica, che recano impressa in cima una tacca che rappresenta il numero dieci e, al centro, il disegno stilizzato di un animale, forse una pecora.

Circa seimila anni fa, un allevatore siriaco andò alla locale fiera del bestiame portando con sé le sue tre pecore migliori e una trentina di sassi simili a quelli citati da Manguel. «Son mica scemo» pensò «a portarmi dietro trecento pecore, col rischio che qualcuna scappi o che i banditi me le rubino». Un compratore venne da lui e disse «belle queste pecore, ne prendo venti», e lui rispose «eccoti due sassi da dieci. Portali alla casa di Gino il Caldeo, che sarei io, terzo villaggio a sinistra sulla via di Damasco, e il guardiano ti darà venti pecore. Fanno tre scicli e ottanta».

La scrittura nacque quindi per redigere contratti di vendita, e qui vale la pena sottolineare che di tutti i discorsi che si scambiarono Gino il Caldeo e il compratore per chiudere la trattativa — condita da diversi insulti levantini qui irripetibili — alla scrittura fu affidata soltanto la frase «dieci pecore» incisa sui sassi. Rara accortezza. Sapevano infatti entrambi, Gino e l’altro, che la scrittura è uno strumento inesatto e ambiguo, bisognoso di interpretazione e dunque fonte di inesauribili contese, utile per evitare di portarsi appresso trecento pecore, ma pericolosissimo per trasmettere messaggi che non si accontentino di due parole al massimo, tipo “dieci pecore”, “ti amo”, “sto morendo” o “vaffanculo”.

Assai meno prudente fu un romanziere fenicio che pochi millenni più tardi utilizzò la scrittura per rappresentare artisticamente la sua infanzia infelice. Il romanzo, purtroppo perduto, mostrava attraverso una fine indagine psicologica come le privazioni inflitte da una madre viziosa al protagonista avessero minato in modo irrimediabile la sua autostima, trasformandolo in un serial killer che solo un sagace ispettore di polizia riuscì a smascherare fingendosi una meretrice ittita. Il governatore di Sidone, acuto lettore, interpretò il romanzo come piena e spontanea confessione di atroci delitti, e fece senz’altro decapitare il romanziere, restando provvidenzialmente sordo ai di lui disperati appelli alla sospensione dell’incredulità e alla separazione fra autore e io narrante.

L’episodio del romanziere fenicio (rigorosamente autentico, viste le numerose gazzette coeve che ne danno notizia) dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che trasmettere un messaggio per via di storie, immaginazioni, rappresentazioni sceniche, racconti, romanzi e altre finzioni è una pia illusione. La scrittura non comunica. La scrittura confonde, svia, nasconde, inganna, copre, falsifica. È nata per stipulare contratti, c’è poco da fare, e alla base di ogni contratto degno di questo nome c’è l’implicita intenzione di turlupinare la controparte. Gino il Caldeo portò al mercato le sue pecore migliori e incise sui sassi la frase «dieci pecore» con la precisa intenzione di far credere al compratore che egli avrebbe portato a case dieci pecore di pari qualità. Il compratore — che in questa storia, lo diciamo per i lettori più distratti, rappresenta il lettore — ebbe in cambio di quel paio di sassi venti pecore macilente, sgalfie, prossime al suicidio, spompate, talune perfino indegne del nome di pecora.

La morale della favola è così ovvia che quasi ci si vergogna a enunciarla: non fidarti mai, lettore, dei romanzieri che infarciscono i loro romanzi di massime morali, visioni del mondo o vaghi appelli alla pietas. Romanzieri siffatti credono davvero che scrivere equivalga a comunicare. Sono individui pericolosi, lettore, e non sempre c’è in giro un savio governatore pronto a decapitarli.

Il bramito del cervo rosso in amore e le scuole di scrittura

Wednesday, July 28th, 2010

Cervo rosso, tratto da www.flickr.com/photos/jellybeanzgallery/3953194119/Qualche giorno fa, commentando un post su vibrisse, ho ricordato un episodio buffo che risale a una trentina di anni fa. Durante l’abituale sessione di fancazzismo pomeridiano (bei tempi), captai l’inizio di un documentario televisivo, uno di quei documentari che si fanno ancora oggi, più o meno con lo stesso format di allora, sulla vita degli animali selvaggi in ambienti selvaggi, una sorta di fiction naturalista più vicina ai romanzi di Jack London che ai trattati di etologia, ma presentata al pubblico come serissima divulgazione scientifica.

Il documentario si apriva con un suono che l’orecchio collocava esattamente a metà strada fra la voce di Barry White e le sirene degli allarmi antiaerei, e che il cervello riconduceva con fatica a un’origine animalesca solo grazie al suggerimento visivo offerto dall’inquadratura in campo lungo di una foresta nordica innevata e brumosa. Dopo alcune ripetizioni del verso, la voce fuori campo del commentatore diceva: “Avrete certamente riconosciuto il bramito del cervo rosso in amore”. La telecamera del ricordo si sposta su un me stesso torto dalle risate.
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L’incubo

Monday, December 14th, 2009

Johann Heinrich Füssli, The nightmare (1781) tratto da http://en.wikipedia.org/wiki/File:John_Henry_Fuseli_-_The_Nightmare.JPG
 
Una volta chiamai Giorgio Manganelli sbobinatore di incubi, e un amico rispose che poteva anche andare bene, sbobinare gli incubi, però non i propri, come sembra appunto accadere nel Manganelli narratore, ma quelli degli altri.

Questa notte ho avuto un incubo, una cosa che mi capita rarissimamente, per non dire mai. Altro fatto inconsueto per me, che di solito non rammento a sera quel che ho fatto a mezzogiorno, è che al risveglio ricordavo tutta intera la trama, per così dire, dell’incubo, nonché numerose scene e non pochi particolari.

Lì per lì ho pensato che avrei potuto sbobinarlo, l’incubo, in modo da lasciare ai posteri — e soprattutto al postero di me stesso che io sarò fra qualche anno — una traccia scritta di questo accadimento così raro e strano. Subito dopo, però, mi è tornata in mente la risposta dell’amico e l’ho immediatamente tradotta in avvertimento, segnale, pannello luminoso con scritta a intermittenza: non azzardarti a farlo.

Aveva ragione, l’amico: trascrivere i propri incubi può andare bene, al limite, come strumento psicanalitico o come personalissimo rito apotropaico: dare corpo alle proprie paure per poterle riconoscere, vedere, toccare ed eventualmente prendere a mazzate fino a renderle innocue. Difficilmente la sbobinatura servirà a intercettare gli incubi altrui, che è un’ambizione molto più appropriata per la scrittura.

Se diamo ragione a Shakespeare quando diceva che siamo fatti della stessa materia dei sogni, se seguiamo Schopenhauer quando dubitava che esistesse un criterio sicuro per distinguere il sogno dalla realtà, allora dobbiamo credere che il modo migliore per scrivere di incubi universali e condivisi, sia quello di narrare la dura materia e la vita vissuta a occhi aperti.

L’unica cosa sensata che posso dire a proposito del mio incubo, adesso che sono sveglio, è che questa notte ho avuto un incubo e che al risveglio lo ricordavo tutto intero. Ai posteri, me incluso, basterà la notizia. La trama, le scene, i particolari e di quale angoscia esso incubo fosse araldo, queste son tutte cose degne di essere taciute.

Una scrittura bella

Friday, December 11th, 2009

Talvolta capita, leggendo in giro, che il lettore scovi ponderose riflessioni e accesi dibattiti sui doveri dello scrittore: e chi dice che lo scrittore ci deve avere l’impegno civile; e chi dice che la scrittura deve cambiare il mondo; e chi dice che lo scrittore deve scrivere chiaro; e chi dice che deve scrivere scuro; e chi dice. Gli autori di queste ponderose riflessioni son il più delle volte persone che pubblicano libri: romanzi, poemi, saggi di critica letteraria.

Altre volte capita, leggendo in giro, che il medesimo lettore si imbatta in una scrittura bella, semplicemente bella, con uno stile miracolosamente commisurato al contenuto, un bel ritmo, una singolare capacità comunicativa. Una scrittura che dice, senza che nessuno le dica cosa dovrebbe dire. Una scrittura che è, senza preoccuparsi di come dovrebbe essere. Potrei sbagliare, ma scommetto che l’autrice di questo gioiellino non ha mai pubblicato un romanzo, un poema, un saggio di critica letteraria.

Quello volte lì, quando trova una scrittura bella, il lettore intuisce che chi scrive ha un dovere solo: scrivere bene.

L’assenza

Saturday, August 26th, 2006

Qui fuori, fra le molte cose che si manifestano ai miei sensi, ce n’è una che fatico a comprendere e a descrivere, tanto da sentirmi obbligato a dubitare della sua presenza. Mi accorgo che desidero conoscere appieno il senso e gli effetti di codesto dubitare, e questo desiderio mi suggerisce – con tono amichevolmente perentorio – di rimandare il tentativo di identificare l’oggetto del dubbio, per riflettere un poco sulla parola presenza.

Essere presente significa essere al cospetto di qualcuno, essere manifesto, concreto, tangibile, corporeo, percepibile, evidente, ostentato, affrontabile. Una presenza è qualcosa con cui posso intavolare una discussione o una contesa o una colluttazione, qualcosa a cui posso in qualche modo applicare la preposizione contro: posso scagliarmi contro un muro, posso argomentare contro un’idea che non condivido, posso lottare contro una malattia.
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La locanda

Monday, August 7th, 2006

Henri Regnault, Interno di Taverna, tratto da www.museodevigo.orgMi trovo in una locanda buia e fumosa. Che sia una locanda, a dire il vero, è solo una mia supposizione. Cosa sia veramente questo luogo, se di luogo si tratta, non saprei dirlo con esattezza. Più che fumosa, poi, dovrei dirla nebbiosa o indistinta o vaga: attorno a me vedo soltanto i contorni sfumati di oggetti presumibili, ma di esistenza assai incerta. Vedo tracce labili di tavoli potenziali; odo frammenti di suoni che alludono a voci; fiuto uste deboli e confuse di qualcosa che assomiglia al vino, o forse all’idea del vino, o a un suo lontano ricordo. Quanto all’oscurità, sarebbe più corretto definirla penombra, o meglio ancora citazione di una penombra traslucida, lattiginosa, opalescente.
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Il Progetto

Tuesday, July 11th, 2006

Copista, tratto da www.monasteriodeyuso.orgSono un copista, un riproduttore di parole altrui, un uomo addetto a passare allo scanner quel che altri uomini hanno creduto opportuno fissare sulla carta. Sono uno dei mille e mille copisti che stanno lavorando a un progetto semplice, ma formidabile. Qui, nella sede segreta che ci ospita da anni e in cui concluderemo le nostre oscure esistenze di copisti, lo chiamiamo semplicemente Il Progetto. Il Progetto è articolato in quattro fasi.

Fase 1, Biblioteca Universale: trascrivere tutti i libri del mondo in un database replicato su migliaia di macchine interconnesse, dislocate parte a terra e parte su satelliti orbitanti. Il database sarà interrogabile via Internet da qualunque punto del globo, in qualsiasi momento. Si potranno cercare singole parole, frasi, autori e opere; confrontare edizioni diverse della stessa opera e individuare le varianti sarà questione di attimi; in pochi decimi di secondo si potranno individuare tutti i libri in cui un aforisma o una sentenza sono citati.
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Il lettore smemorato

Thursday, June 1st, 2006

Anna Marongiu, Don Ferrante (1926) tratto da www.marongiu.orgC’era una volta un lettore smemorato che lesse un libro e lo dimenticò. Allora ne lesse subito un altro e dimenticò anche quello. Se un valente professore di letteratura l’avesse interrogato su quei libri, il lettore smemorato avrebbe fatto scena muta e il professore gli avrebbe detto: «Mi spiace, caro discente, la sua preparazione è insufficiente. Ritenti al prossimo appello, se se la sente».

Pensava spesso a una frase di Musil, il lettore smemorato: «è del tempo di Socrate dirsi ignoranti, del nostro tempo essere ignoranti», e gli dispiaceva sapere che Musil aveva detto quella cosa a proposito del non sapere; e ancor di più gli dispiaceva sapere che Musil diceva quella cosa avendo in mente il celebre aforisma di Socrate «so di non sapere». Sapere tutte quelle cose lo gettava nello sconforto. «È segno che non ho dimenticato abbastanza» pensava, e si consolava al pensiero di aver dimenticato almeno il libro in cui aveva letto quella frase di Musil.
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Il più grande romanzo di tutti i tempi

Friday, May 19th, 2006

Paul Delvaux, La nascita del giorno, 1937 Venezia Collezione Peggy Guggenheim, tratto da www.griseldaonline.itBasta! Ho deciso: scriverò un romanzo, un grande romanzo, il più grande romanzo di tutti i tempi! Niente e nessuno mi potrà fermare. Quando mi metto in testa una cosa, io.

La fabula, innanzitutto. Dovrà essere una storia vera, verissima, più vera del vero. Una storia che, mentre uno la legge, ogni due righe si sorprende a dire: è proprio vero! Per raggiungere questo primo obbiettivo s’impone una riflessione attenta e scrupolosa, mirata a selezionare temi, situazioni e argomenti che abbiano tutto il sapore della verità. Una storia vera dev’essere accaduta, altrimenti non sarebbe vera, ma solo verosimile, quindi dovrebbe essere abbastanza facile da trovare, per esempio frugando nelle pagine di cronaca dei quotidiani.

No, non va bene, perché le cronache giornalistiche non sono i nudi fatti, ma i loro resoconti scritti, e tu m’insegni che un resoconto scritto è un testo e che un testo è fatto di parole che, come tutti sanno, non sono fatti ma per l’appunto parole. No no, i giornali sono mezzi di comunicazione, quindi mediano. A me serve l’evento immediato, caldo di vita, non fresco di stampa. Ecco, la vita… la fonte diretta delle cose, la sorgente naturale e incorruttibile della verità. Lì devo attingere, se voglio che davvero il mio romanzo sia un grande romanzo, il più grande romanzo di tutti i tempi.
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L’imbianchino

Monday, May 8th, 2006

Post imbiancatoSono un imbianchino o decoratore o tinteggiatore che dir si voglia, e quindi è ragionevole dire di me che sono uno che tinteggia o decora o imbianca, ma fra tutte le parole che possono definire me o il mio lavoro io preferisco di gran lunga imbianchino e imbiancare, per via di quell’esplicito riferimento al bianco, parola carica di significati simbolici, emblema del vuoto, del gelo, dell’assenza, ma anche della purezza e soprattutto del candore.

Il candore: un modo di ricezione dell’esperienza e della conoscenza che, se praticato con onesta pervicacia, può sfociare nella più pura stupidità. Ho scritto pura d’istinto, senza pensarci su. Se questo testo fosse sottoposto a un accurato lavoro redazionale, quel pura, così vicino al purezza precedente, sarebbe quasi certamente sostituito da un sinonimo, per esempio cristallina. Tuttavia, a mio modesto avviso, questa sostituzione non sarebbe del tutto opportuna. Infatti, mentre esiste una relazione intuitiva abbastanza forte fra candore, purezza e stupidità, non ce n’è una altrettanto forte fra candore, cristallo e stupidità.
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Dialogo di un libro col suo scrivano

Tuesday, May 2nd, 2006

Scrivano. Tratto da www2.comune.roma.it– Salve, scrivano.
– Odo una voce.
– Non mi riconosci?
– Eppure mi sembra di essere solo in questa stanza.
– Sono il libro, scrivano. Il libro che stai trascrivendo.
– Insiste. Dev’essere una burla. Esca allo scoperto chi si sta facendo beffe di me!
– E da dove ti aspetti che esca costui? La stanza è piccola e bene illuminata e non ci sono anfratti o asperità bastanti per celare persone.
– Eppure sento una voce, la tua voce, burlone… esci allo scoperto!
– Può uscire allo scoperto solo chi si trova al coperto, scrivano, e a costo di ripetermi – cosa che odio – ti faccio notare ancora una volta che in questa stanza non ci sono ricettacoli e nascondigli.
– Dannazione! Sto forse impazzendo? Sento una voce, ma non so di dove venga. Ho cercato ovunque: dietro le tende, sotto la scrivania, sotto il tappeto! ma non ho trovato persone, né fantasmi, né apparecchi per la riproduzione di suoni registrati.
– Eppure questa voce ti parla, nevvero? E ti parla a tono, anche, rispondendo alle tue domande e ponendone altre di conseguenza. Non credi che questo sia un po’ troppo per un attacco di demenza o per un registratore?
– E se non sto impazzendo, da dove può giungere questa voce? e a chi appartiene? Non fa parte delle voci familiari, delle quali riconosco all’impronta il tono, il timbro, le inflessioni, i piccoli difetti di pronuncia. Questa è una voce straniera, una voce che mai ho udito.
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Berlusconi come aggettivo

Friday, April 14th, 2006

berlusconi evaporaEsserci o non esserci? Bisognerebbe capire se è una domanda da porsi seriamente. A ben ragionare, infatti, esserci potrebbe essere un problema che non c’è. Voglio dire: non si può certo stabilire per decreto che esserci comporta vantaggi rispetto a non esserci. Se gli aggettivi non ci fossero, per esempio, sarebbe un problema? Gli uomini cesserebbero di parlare o di scrivere? Resterebbero soltanto discorsi che non possono essere compresi? La civiltà regredirebbe? Pronomi e articoli organizzerebbero un’insurrezione?

Certo, ci potrebbero essere difetti di comunicazione, un senso di spaesamento, difficoltà di articolazione delle frasi, ma col tempo e la pratica le cose s’aggiusterebbero. In fondo anche oggi che gli aggettivi ci sono non è che manchino problemi di formulazione e di comprensione dei discorsi. Abolire le preposizioni o le congiunzioni sarebbe sicuramente un dramma, ma gli aggettivi, suvvia, se ne può fare a meno tranquillamente.
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Il testamento del lettore

Thursday, April 6th, 2006

Testamento. Tratto da www.sahara.itSono un lettore e in questo momento mi trovo presso il notaio che mi aiuterà a redigere il mio testamento. Il notaio mi sta spiegando che l’incipit rituale di queste pratiche mortuarie è una frase del tipo «Io sottoscritto Tal dei Tali (seguono dati anagrafici), nel pieno possesso delle mie facoltà mentali…».

Cominciamo male, vorrei dire al notaio, ma in realtà non apro bocca. Vorrei dirgli che questo incipit un poco mi spaura, perché temo che adottandolo così com’è io corra più d’un rischio di dire il falso. Innanzitutto c’è la questione dei dati anagrafici, che il notaio sembra dare per scontata, ma che per me è alquanto problematica: dove sono nato come lettore, e quando? Dovrei dichiarare il giorno il mese e l’anno in cui aprii il mio primo libro e il luogo in cui mi trovavo, ma proprio non riesco a ricordarlo. D’altronde, siamo seri, chi mai a questo mondo ha ricordi precisi e chiari sul momento della sua nascita? E poi non sono sicuro che sia corretto far corrispondere il parto lettoriale con la lettura del primo libro: prima dei libri ci sarà pur stato un abbecedario e cartelli stradali e insegne di negozi decifrate a fatica.
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