Archive for December, 2009

Dieci domande per un nuovo decennio

Thursday, December 31st, 2009

Un nuovo decennio incombe e la domanda aleggia: cosa resterà degli anni zero del ventunesimo secolo? La paura ingiustificata per il millenium bug? Il crollo delle Twin Towers? Le guerre più o meno telegeniche? Lo tsunami? Il terremoto di Bam? Quello dell’Aquila? Il boom economico di Cina e India? L’iPod? La Wii? Il primo presidente nero degli USA? Le scarpe lanciate contro Bush? Il duomo di Milano contro Berlusconi? Il global warming? La morte di Pavarotti? La sopravvivenza di Andreotti? La dipartita di Michael Jackson? I blog? I social network? Le poesie di Sandro Bondi?

Mah, boh, chi può dirlo.

Quel che resta, come tutti sanno, non dipende da ciò che è stato, ma da ciò che sarà: ricorderemo di questi anni le cose che tra dieci, venti o cent’anni i casi della vita e lo stato dell’umano genere renderanno di volta in volta degne di memoria. Porsi adesso la fatidica domanda è un esercizio non privo di stoltezza, diciamo pure un atto di demenza cosciente, un po’ come gli oroscopi.

Meglio comparare che divinare. Cinquant’anni fa, da queste parti, la simpatica specie di scimmie autocoscienti a cui appartengo era certamente messa peggio di oggi: c’era a mala pena il telefono, figuriamoci il cellulare. Non c’erano personal computer, non c’era internet e i pannelli fotovoltaici erano esperimenti spaziali. L’istruzione era un privilegio di pochi, la mentalità era chiusa e bigotta, la circolazione delle idee e delle persone era limitata.

E però dubito che il 31 dicembre 1959 qualcuno si chiedesse cosa sarebbe restato di quegli anni cinquanta. Ci si chiedeva casomai come sarebbero stati i dieci anni successivi. Domanda non meno stupida dell’altra, beninteso, ma che almeno indica un ottimismo di fondo, la voglia di guardare avanti, una discreta dose di fiducia nel futuro.

Per esempio, l’Unità del primo gennaio 1960 pubblicava dieci domande rivolte a un campione rappresentativo di cittadini sovietici. (Diversamente dalle famose dieci domande di Repubblica a Berlusconi, nella stessa pagina erano pubblicate anche le risposte, che però, va detto, han tutta l’aria di essere inventate di sana pianta). Eccole:

1) Cosa intendete con la parola comunismo?
2) Pensate che nei prossimi 10 anni avremo la pace o la guerra?
3) Cosa pensate di Stalin?
4) Cosa pensate di Krusciov?
5) Oggi in URSS si sta meglio che nel passato?
6) Pensate che l’URSS raggiunga l’America nel 1970?
7) Avete mai conosciuto americani?
8) Cosa vi manca e vorreste ottenere subito?
9) Che ne pensate della religione?
10) Che cosa intendete per cultura?

Lascio queste domande di cinquant’anni fa a tutti i lettori di passaggio assieme agli auguri di un ottimo 2010 e di sfolgoranti anni dieci.

Il nuovo gioco di zop

Tuesday, December 22nd, 2009

Dopo sette anni di onorato blogging e di innumerevoli ludi letterari, zop lancia il primo gioCOCOnCOrso in rete: VITE DA PRECARI tra creatività e follia. Per partecipare bisogna inviare a zop un racconto sul tema del precariato entro il 17 gennaio 2010, tenendo a mente che Saranno privilegiati i racconti ironici, fantasiosi e assurdi (astenersi componimenti patetici).

Tutte le istruzioni e i termini del gioco sono disponibili sul blog di zop che, come da tradizione, ti aspetta numeroso.

Oggi, quando ero giovane

Monday, December 21st, 2009

Oggi, alle due del pomeriggio, il termometro segnava otto gradi sotto zero. La minima di questa notte è stata meno tredici. Sabato mattina nel cortile di casa mia, che si trova a quindici metri sul livello del mare, c’erano quarantadue centimetri di neve. Finalmente un principio d’inverno come si deve, dopo anni e anni trascorsi quasi senza vedere un solo fiocco fioccare in pianura.

Quando ero giovane, se mai lo sono stato, passavo il capodanno in una casetta sull’appennino bolognese, a mille metri d’altitudine. Vicino a casa c’era un laghetto artificiale che in quel periodo dell’anno gelava. Ho ancora delle foto da qualche parte, dove si vede l’allegra brigata che gioca a pallone sul ghiaccio: la mia futura moglie, io, tre o quattro amici. Allora, metà anni ottanta del secolo scorso, c’era ancora il muro di Berlino e per mettere paura alla gente non si minacciava il global warming, ma la guerra atomica (chissà se chi è giovane adesso ha mai sentito parlare di euromissili).

Oggi cade il solstizio d’inverno, la notte più lunga, il giorno in cui gli antichi celebravano la festa del sole invitto per ricordarsi che sì, era vero che quel giorno lì iniziava l’inverno, la stagione più dura dell’anno, ma era anche vero che da lì in poi il sole avrebbe ricominciato a sopravanzare la tenebra, stendendo sui campi innevati un fausto presagio di primavera. Noi moderni non ci facciamo più tanto caso a questa faccenda delle giornate che riprendono ad allungarsi, perché a differenza degli antichi abbiamo l’illusione di dipendere meno dalla cruda natura e di poterci prendere il lusso di fottercene un po’ delle stagioni, perché tanto d’inverno ci sono i caloriferi e d’estate i condizionatori. Secondo me erano più saggi di noi, gli antichi, ma meno fortunati.

Quando ero giovane, negli stessi anni in cui trascorrevo il capodanno in montagna, d’estate andavo al mare all’Isola d’Elba, tra la metà di luglio e la metà di agosto. Là c’era un signore, il padre di un mio amico, che si divertiva a ripetere quasi ogni giorno una frase di dubbia sintassi: “non siamo neanche in estate che siamo già in inverno un’altra volta”. Il significato era più o meno questo: ma tu guarda, l’estate è iniziata da poco e già le giornate si accorciano, annunciando a noi mortali che la terra continua a girare intorno al sole verso l’inverno prossimo venturo. In quegli anni l’alternarsi delle stagioni era ancora un argomento di conversazione. In quegli anni esistevano ancora le conversazioni.

Oggi non siamo neanche in inverno che siamo già in estate un’altra volta.

Il maestro di Cremona

Wednesday, December 16th, 2009

Leggo che in una scuola di Cremona hanno deciso di rinominare il Natale. Cito:

Il maestro che ha preso la decisione non ha ripensamenti o dubbi: ci sono molti bambini di fede e nazionalità diverse, si rischiava di urtare la loro sensibilità. La nascita di Gesù si chiamerà «Festa delle luci».

Sono sbalordito dalla scorrettezza politica di questo maestro. E dire che bastava una piccola ricerca in google per capire quanto sia infelice la scelta di questo nome.

Se l’avesse fatta, avrebbe appreso che “Chanukkà o Hanukkah (in ebraico חנכה, ḥănukkāh) è una festività ebraica, conosciuta anche con il nome di Festa delle Luci“, e che Festa delle luci è anche la traduzione di Diwali, un’importante festa induista. Si sarebbe subito reso conto, il maestro di Cremona, che il passaggio del Natale dal cristianesimo all’ebraismo o all’induismo non risolve il problema di non urtare la sensibilità di bambini scintoisti, animisti, musulmani, bahai, agnostici, politeisti e fedeli del Grande Cocomero.

E non basta. La ricerca rivela che a Lione la Festa delle luci è uno degli eventi più attesi dell’anno. Questo nome mette quindi a dura prova anche la sensibilità di eventuali scolari lionesi, per tacere della sensibilità di quelli provenienti da città francesi che con Lione potrebbero avere vecchie ruggini o questioni di campanile.

Davvero non ci sono parole per definire la mancanza di tatto di quel maestro di Cremona.

L’incubo

Monday, December 14th, 2009

Johann Heinrich Füssli, The nightmare (1781) tratto da http://en.wikipedia.org/wiki/File:John_Henry_Fuseli_-_The_Nightmare.JPG
 
Una volta chiamai Giorgio Manganelli sbobinatore di incubi, e un amico rispose che poteva anche andare bene, sbobinare gli incubi, però non i propri, come sembra appunto accadere nel Manganelli narratore, ma quelli degli altri.

Questa notte ho avuto un incubo, una cosa che mi capita rarissimamente, per non dire mai. Altro fatto inconsueto per me, che di solito non rammento a sera quel che ho fatto a mezzogiorno, è che al risveglio ricordavo tutta intera la trama, per così dire, dell’incubo, nonché numerose scene e non pochi particolari.

Lì per lì ho pensato che avrei potuto sbobinarlo, l’incubo, in modo da lasciare ai posteri — e soprattutto al postero di me stesso che io sarò fra qualche anno — una traccia scritta di questo accadimento così raro e strano. Subito dopo, però, mi è tornata in mente la risposta dell’amico e l’ho immediatamente tradotta in avvertimento, segnale, pannello luminoso con scritta a intermittenza: non azzardarti a farlo.

Aveva ragione, l’amico: trascrivere i propri incubi può andare bene, al limite, come strumento psicanalitico o come personalissimo rito apotropaico: dare corpo alle proprie paure per poterle riconoscere, vedere, toccare ed eventualmente prendere a mazzate fino a renderle innocue. Difficilmente la sbobinatura servirà a intercettare gli incubi altrui, che è un’ambizione molto più appropriata per la scrittura.

Se diamo ragione a Shakespeare quando diceva che siamo fatti della stessa materia dei sogni, se seguiamo Schopenhauer quando dubitava che esistesse un criterio sicuro per distinguere il sogno dalla realtà, allora dobbiamo credere che il modo migliore per scrivere di incubi universali e condivisi, sia quello di narrare la dura materia e la vita vissuta a occhi aperti.

L’unica cosa sensata che posso dire a proposito del mio incubo, adesso che sono sveglio, è che questa notte ho avuto un incubo e che al risveglio lo ricordavo tutto intero. Ai posteri, me incluso, basterà la notizia. La trama, le scene, i particolari e di quale angoscia esso incubo fosse araldo, queste son tutte cose degne di essere taciute.

Una scrittura bella

Friday, December 11th, 2009

Talvolta capita, leggendo in giro, che il lettore scovi ponderose riflessioni e accesi dibattiti sui doveri dello scrittore: e chi dice che lo scrittore ci deve avere l’impegno civile; e chi dice che la scrittura deve cambiare il mondo; e chi dice che lo scrittore deve scrivere chiaro; e chi dice che deve scrivere scuro; e chi dice. Gli autori di queste ponderose riflessioni son il più delle volte persone che pubblicano libri: romanzi, poemi, saggi di critica letteraria.

Altre volte capita, leggendo in giro, che il medesimo lettore si imbatta in una scrittura bella, semplicemente bella, con uno stile miracolosamente commisurato al contenuto, un bel ritmo, una singolare capacità comunicativa. Una scrittura che dice, senza che nessuno le dica cosa dovrebbe dire. Una scrittura che è, senza preoccuparsi di come dovrebbe essere. Potrei sbagliare, ma scommetto che l’autrice di questo gioiellino non ha mai pubblicato un romanzo, un poema, un saggio di critica letteraria.

Quello volte lì, quando trova una scrittura bella, il lettore intuisce che chi scrive ha un dovere solo: scrivere bene.

Padri e figli

Saturday, December 5th, 2009


 
Io, quando ho letto la famigerata lettera di Pier Luigi Celli al figlio, me n’è venuta in mente un’altra, una lettera che Niccolò Machiavelli scrisse al figlio Guido il 2 aprile 1527. L’ultima, perché il Segretario fiorentino sarebbe morto il 22 giugno successivo. Trascrivo i primi due paragrafi, sufficienti a marcare la differenza fra il burocrate di cinquecento anni fa e quello odierno.

Guido figliuolo mio carissimo. Io ho avuto una tua lettera, la quale mi è stata gratissima, maxime perché tu mi scrivi che sei guarito bene, che non potrei havere havuto maggiore nuova; che se Iddio ti presta vita, et a me, io credo farti huomo da bene, quando tu vuogli fare parte del debito tuo; perché, oltre alle grandi amicitie che io ho, io ho fatto nuova amicitia con il cardinale Cibo et tanta grande, che io stesso me ne maraviglio, la quale ti tornerà a proposito; ma bisogna che tu impari, et poiché tu non hai più scusa del male, dura fatica in imparare le lettere et la musica, ché vedi quanto honore fa a me un poco di virtù che io ho; sì che, figliuolo mio, se tu vuoi dare contento a me, et fare bene et honore a te, studia, fa bene, impara, ché se tu ti aiuterai, ciascuno ti aiuterà.

El mulettino, poiché gli è impazato, si vuole trattarlo al contrario degli altri pazzi: perché gli altri pazzi si legano, et io voglio che tu lo sciolga. Daràlo ad Vangelo, et dirai che lo meni in Montepugliano, et dipoi gli cavi la briglia et il capestro, et lascilo andare dove vuole ad guadagnarsi il vivere et ad cavarsi la pazzia. Il paese è largo, la bestia è piccola, non può fare male veruno; et così sanza haverne briga, si vedrà quello che vuol fare, et sarai a tempo ogni volta che rinsavisca a ripigliallo.

Nel primo paragrafo Machiavelli dice senza ipocrisia che, quando verrà il momento, sfrutterà la sua rete di relazioni per aiutare il figlio a fare carriera, cosa che Celli non ammetterebbe nemmeno sotto tortura. E però aggiunge: studia, fa bene, impara. In altre parole, laddove il Celli scioccamente ravvisa una palingenesi nell’espatrio, il Machiavelli avvisa il figlio che in mancanza di studio e applicazione resterà una capra ovunque egli vada.

Il secondo paragrafo è un capolavoro. Ma davvero, neh, mica per scherzo. È la prosecuzione per metafora di quello studia, fa bene, impara.

I figli, proprio come i puledri, a una certa età impazziscono: vogliono prendere strade inconsuete, fare di testa loro, sfidare il mondo. Ci sono padri come Celli che impongono ai figli impazati la briglia e il capestro dei propri pregiudizi: fai questo, fai quello, vai all’estero, da’ retta a me che sono uomo di mondo. Ci sono padri come Machiavelli che li lasciano andare dove vogliono a guadagnarsi il vivere, sperando che rinsaviscano.

Come figlio ho già dato, non posso tornare indietro. Come padre spero in un destino simile a quello di Niccolò Machiavelli: sparire da questo mondo molto prima di cedere alla tentazione di imporre briglia e capestro ai miei figli, quando impazziranno.

C’era una volta l’Unità

Thursday, December 3rd, 2009

archivio.unita.it
 
(l’Unità, un titolo del 15 novembre 1962)

A causa della mia lentezza, apprendo solo ora che l’Unità ha digitalizzato tutte le annate. L’archivio storico è disponibile qui, e a colpo d’occhio mi sembra che funzioni piuttosto bene.

Merita un’occhiata il primo numero del 12 febbraio 1924. Costava venti centesimi (di lire, neh) per quattro pagine ed era sottotitolato Quotidiano degli operai e dei contadini, ma già il 12 agosto 1924 sarebbe diventato Organo del partito comunista d’Italia. In prima pagina spicca, in neretto, la dedica del primo numero alla memoria di Nicola Lenin, morto il 21 gennaio 1924.

La notizia del giorno era il riconoscimento della Russia sovietista da parte di Mussolini: La riammissione della Russia nel seno delle potenze europee avrà ripercussioni incalcolabili. La lotta di classe è combattuta oggi su un grande scacchiere e a corpo a corpo con le potenze capitalistiche. I nemici della Russia sono moltissimi. Solo l’appoggio diretto e indiretto dei proletari di tutti i paesi potrà aiutarla a vincere come finora l’ha aiutata a vivere. La lotta di classe! I proletari!

Naturalmente io sono subito andato a consultare il numero del giorno che segna l’inizio della mia unica e irripetibile vita sul pianeta Terra. Il sottotitolo della testata era Organo del partito comunista italiano, il prezzo era salito a 40 lire per dodici pagine.

In apertura si dava l’annuncio di Due giorni di lotte contadine, seguito dalla notizia di un violento temporale in territorio romano: A Prima Porta diecimila persone sono isolate nella campagna allagata dalle acque della marrana straripate per la diga di Castelgiubileo. Hanno trovato scampo sui tetti e nei piani superiori delle case. Ho dovuto consultare il vocabolario per scoprire cosa significa marrana: a Roma, fiumiciattolo o canale di scolo in cui le acque fluiscono lentamente, a cielo aperto. Da un altro titolo di prima pagina, Il compagno Togliatti a Bologna, scopro di essere nato sotto il segno della falce e martello.

A pagina 2 un trafiletto svelava Una proposta del PCI per la pensione dei minatori a 55 anni. I minatori! A pagina 7 c’erano i programmi del primo e del secondo canale della Rai TV, gli unici disponibili all’epoca, chiamati comunemente il primo e il secondo: una sola trasmissione mattutina, Telescuola, poi si riprendeva alle quattro e un quarto del pomeriggio sul primo e alle nove di sera sul secondo. Sul primo, alle 21,05 del giorno che udì il mio primo vagito, c’era la sesta puntata di Canzonissima, la penultima presentata da Dario Fo e Franca Rame prima di essere cacciati dalla Rai.

A pagina 11, pubblicità: Mal di testa? reumatismi mal di denti nevralgie? CACHET FIAT. Anche in supposte. Non fa male al cuore.

A pagina 6, dedicata alla cultura, una grande Novità della tecnica: il visore a raggi infrarossi. Che roba. Sono passati meno di cinquant’anni e sembrano secoli.