La pendola di Napoleone

Pendola a Matsumoto, Giappone, tratto da flickr.com/photos/richardsouder/34516041/Fuori fa un po’ freddo, quindi spengo la sigaretta e rientro. Mentre chiudo la porta finestra, getto un’occhiata al salotto da sopra la spalla e penso che c’è un discreto disordine qui dentro: carte sparse sulla scrivania; i cuscini del divano dislocati in posizioni improbabili; libri accatastati un po’ ovunque; polvere. Riprendo in mano il libro che ho finito poco fa e lo apro a caso, forse sperando che l’incanto della locanda si ripeta. Guardo le parole allineate sulle righe; le riguardo; leggo qualche frase. Non succede niente. Mi concentro sulle parole che leggo, le rileggo, ma non perdo mai il contatto con il salotto e con il suo disordine così materiale, concreto, sensibile, tutt’altro che metafisico, un disordine che sento familiare e amichevole, figura di un altro disordine che mi riguarda.

Allineo con cura i cuscini del divano; ripongo i libri nella libreria, facendo attenzione a rispettare l’ordine alfabetico che molto tempo fa avevo stabilito; riordino le carte sulla scrivania, ciascun foglio reinserito nella sua cartella di competenza e le cartelle riposte nei cassetti; rimuovo la polvere dai mobili e dagli scaffali con l’apposito panno in microfibra recuperato dallo sgabuzzino e passo infine l’aspirapolvere su tutte le superfici orizzontali a portata di tubo flessibile. Un gran bel lavoro, non c’è che dire: ora il salotto è metafora di un ordine retto da leggi severe e perenni, leggi che quasi certamente contemplano la mia presenza solo come errore marginale, dato che sùbito mi prende un’impressione di estraneità, se non di aperta ostilità, verso questo interno così lindo, rispettoso delle convenienze, sicuro di sé, nemico giurato di errori e fraintendimenti.

Dentro e fuori sono avverbi ambigui e inaffidabili, e il fatto che talvolta si travestano da preposizioni non fa che confermare e aggravare la loro doppiezza. Il dentro (sì, possono anche prendere sembianze di sostantivi) è il luogo familiare, confortevole, protettivo: la casa, la stanza, il focolare domestico; il fuori è invece figura di luoghi inospitali, insicuri, ricettacoli di trappole e insidie. Il salotto è un dentro, ma adesso che è così impeccabilmente rigovernato mi appare come un fuori, luogo affatto estraneo alla mia esistenza così ricca di errori, inganni e illusioni, così simile a uno che passa le ore a lucidare uno specchio chiedendosi chi sia quel tale che lo lucida dall’interno.

Il confine fra dentro e fuori è molto sottile, ammesso che esista. Un luogo che spesso viene citato come esempio di dentro è la coscienza, quel groviglio di pensieri, idee, sentimenti, angosce e terrori col quale talvolta l’uomo ama intrattenersi, non so se per diletto o per masochismo. Non è inusuale che codesto luogo sia indicato come interiore, aggettivo che esprime la quintessenza del dentro, e non di rado si sente dire che certe manifestazioni di questa coscienza – spesso discorsi sentimentali o vagamente edificanti – provengono dal di dentro. Eppure non credo che la mia coscienza sia davvero un dentro, almeno non del tutto, altrimenti non saprei come spiegare le numerose occasioni in cui mi sento del tutto estraneo a me medesimo. E non intendo attacchi di furore, né sragionamenti dovuti a eccessi alcolici, né quel senso di straniamento tipico del dormiveglia, bensì un’ordinaria e lucida consapevolezza di essere fuori di me in modo alquanto permanente e irreversibile, pacato e tranquillo, specialmente quando sono ben sveglio e in piena efficienza psico-fisica.

C’è una pendola in un angolo del salotto, una vecchia grossa pendola che un antiquario tentò di vendermi giurando e spergiurando che proveniva dagli arredi di Napoleone al castello di Fontainebleau. Il giorno dopo tornai da lui con un amico esperto di mobili antichi che la datò a colpo sicuro ai primi anni trenta del ventesimo secolo. Il fellone me la cedette a un decimo del prezzo napoleonico. In ricordo della tentata truffa questo oggetto imponente e onestamente dozzinale mantiene tutt’oggi il nome ironico di pendola di Napoleone. Adesso segna le sette, e i colori del tramonto che filtrano dalla tenda della porta finestra suggeriscono che la pendola intenda le sette di sera. Nell’immaginario collettivo Napoleone è diventato suo malgrado un emblema della follia e della demenza: i suoi progetti imperiali sono simbolo di ogni mania di grandezza e credersi Napoleone è locuzione intercambiabile con essere completamente fuori di testa. Mentre apro la tenda penso che forse la pendola crede davvero di essere appartenuta a Napoleone, e forse trasmette germi di napoleonismo a chi la frequenta.

Mi metto a lato della finestra e guardo dentro e fuori seguendo con la testa il movimento meccanico della pendola. All’ordine estraneo e ostile del dentro si alterna il piacevole e familiare disordine del fuori: il cielo è solcato da nuvole lunghe e filamentose, come se un qualche nume celeste stesse fumando un sigaro in santa pace, dopo una dura giornata trascorsa ad ascoltare le lamentele degli umani e a dispensare parvenze di consolazioni; in un cortile polveroso alcuni bambini tirano calci poco convinti a un pallone sgonfio; un traghetto è arrivato in porto e nella confusione della banchina fatico a distinguere chi è appena arrivato da chi sta per partire, e forse neppure i passeggeri saprebbero dirlo con precisione.

Non ho né il potere né i mezzi per rigovernare là fuori: spazzare le nuvole, spolverare il cortile, gonfiare il pallone, allineare i viaggiatori in file ordinate. Allora decido che è giunto il momento di rientrare in me stesso e di uscire fuori, magari a cenare in una trattoria all’aperto, o anche solo a passeggiare su e giù per il corso, a dare in qualche modo anch’io il mio piccolo contributo all’indispensabile disordine universale.

5 Responses to “La pendola di Napoleone”

  1. Il disordine del di fuori è così armonioso…
    Bart

  2. CalMa says:

    Chissà, penso, le voci di dentro.

  3. Zorro says:

    Non sarei nulla senza disordine, non vivrei senza disordine.
    Quella pendola mi fa tornare ad Eco ed al suo strano pendolo, che però era di Foucault e non di Napoleone.

  4. melpunk says:

    spesso sento dire l’esprressio “quello lì è bello dentro”. ma la gente si è mai vista dentro? è un vero schifo, a pensarci. sacusa le considerazioni macabre e un grande saluto letturalente
    mel

  5. letturalenta says:

    Eh, mi sa che nove volte su dieci “bello dentro” è un modo gentile per dire che quel tale è orrendo fuori.

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