Per sopravvivere bastano dieci o dodici parole: ho fame; ho sete; lasciami solo; fottiti; baciami; è stato bello. Per vivere decentemente ne servono quattro o cinquecento al massimo. Per scrivere bisogna manovrarne parecchie migliaia, per via del fatto che la parola scritta non può avvalersi dei numerosissimi significanti emessi dal corpo umano durante una normale conversazione a quattr’occhi.
Dev’essere questo il motivo per cui il sagace Pirandello quella volta disse che la vita si vive o si scrive.
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Mmmmh… mmmh… non saprei…
Antonio Tabucchi in una prefazione a Pessoa, rimarcava il fatto che a chi la vita non basta, a chi non riesce ad accettarla per come è (nel suo lancinante e ingarbugliato mistero…), allora scrive, allora fa letteratura. Forse, in questo caso, Pirandello sta dicendo qualcosa di un po’ diverso. Però penso che alla radice la scintilla sia la stessa. Carlo Emilio Gadda sosteneva che il mondo, l’universo, è qualcosa di “barocco”, di estremamente complesso, e che per tale motivo, altrettanto complesso ed elaborato dovrebbe essere lo strumento attraverso cui lo indichiamo (Italo Calvino avrebbe detto “attraverso cui lo -viviamo-“; Calvino come Wittgenstein sosteneva che noi facciamo esperienza del mondo attraverso il linguaggio, attraverso le parole).
E al modus operandi di Gadda è vicinissimo (manco ci fosse bisogno di dirlo o notarlo) il caro Manganelli. Due, che della nostra lingua, l’Italiano, hanno fatto uno strumento titanico, dirompente, dalle infinituple potenzialità.
Rimane sempre il dubbio però, come diceva l’altrettanto caro Emil Cioran, che ci si aggrappi così fortemente e intensamente alle Parole proprio quando le Cose perdono di consistenza, quando dopo un lungo tratto del nostro viaggio, ci sembra che la cosiddetta Realtà abbia assunto in sé un non so che di “simulacro”. Ecco, torniamo all’idea da cui eravamo partiti: che si faccia letteratura, si scriva, si legga, esattamente nella misura in cui la Vita, l’Esistenza, l’Esserci (o si scelga il termine che più aggrada) perda peso, valore, “consistenza”… Insomma, le due cose sembrerebbero inversamente proporzionali.
Oddio, è la mia soggettivissima esperienza della cosa! Son perfettamente conscio del fatto che per alcuni, magari, sarà invece il contrario: più sono felici e in armonia con l’universomondo, è più saranno produttivi in ambito letterario. Ma beati loro, per carità… se ci riescono, se così stanno veramente le cose…
Non ho certezze a riguardo, Sebastian, ma sono ragionevolmente convinto che gli scrittori prendano penna e calamaio (o tastiera e monitor) contro la vita, specialmente contro l’inadeguatezza della vita all’idea più o meno fantastica di felicità che ciascuno si crea. E lo fanno, forse, illudendosi che la scrittura possa davvero sciogliere i nodi che procurano angoscia e insoddisfazione.
Sia come sia, qui mi sono limitato a giocare un po’ con il celebre aforisma di Pirandello (che, lo dico piano per schivare le ire di eventuali fan di passaggio, mi sembra più una boutade che un pensiero).