Tu mi chiedi, o lesto divoratore di pixel, quale sia la ragione che spinge il lettore a sprecare sui libri un tempo che egli potrebbe dedicare ad attività produttive e socialmente utili. Non ho una risposta pronta, ma in prima battuta mi sembra ragionevole supporre che la causa delle insane passioni lettorie risieda nell’oggetto materiale della lettura. Il libro è alquanto semplice, almeno a una prima occhiata: nient’altro che un parallelepipedo, forse il solido meno affascinante di tutti, usato per costruire oggetti esteticamente poco esigenti come scatole da scarpe, mobili dell’Ikea o stabilimenti industriali. Un parallelepipedo fortemente schiacciato, oltretutto, con due facce sproporzionatamente più ampie delle altre quattro: una frittella geometrica.
Come può dunque un articolo così comune, dozzinale, banale perfino, attirare l’attenzione del lettore, ammaliarlo, sedurlo, confonderlo fino a fargli sborsare quattrini per averlo? Cercherò di rispondere per via sperimentale: tolto dalla mia modesta biblioteca di lettore lento un volume a caso, fingerò di osservarlo per la prima volta, come se l’avessi appena avvistato in libreria, sperando che da un’osservazione minuziosa possano scaturire intuizioni proficue sui meccanismi che mi portarono ad acquistarlo a suo tempo.
Si tratta di un esemplare piuttosto piccolo, misura appena millimetri 170x110x10. Osservando la copertina noto come i fabbricanti di libri rimedino alla piatta bruttezza dell’oggetto con opportuni ornamenti, quali immagini, fregi, ghirigori, greche o svolazzi. In questo caso la scelta è caduta sulla figura di un signore barbuto abbigliato in modo piuttosto bizzarro, affiancato dalla gran testa di un bovino – si direbbe un toro – che l’uomo probabilmente conduce per la cavezza. La figura dal sapore antico mi incuriosisce e mi induce a cercare una didascalia. D’istinto rovescio il libro e leggo «Copertina: Scena sacrificale, pittura murale. Aleppo, Museo Archeologico». Aleppo è una parola rintanata in qualche recesso della mia memoria. Ospita un museo archeologico, quindi dev’essere una città, ma lì per lì non mi riesce di collocarla sul mappamondo. A dispetto della mia smemoratezza, però, la parola riesce a evocare un oscuro verso dantesco: Pape Satan, pape satan aleppe. Una parola come Aleppo non può essere capitata lì per caso. La sua presenza rivela un’occulta regia, un progetto deliberatamente teso ad attirarmi, a irretirmi, a trattenermi nei pressi del libro, qualora il barbuto conducente di tori non dovesse bastare.
Continuo a rigirare il libro fra le mani, passando dalla quarta alla prima di copertina e viceversa. Sopra il buffo copricapo del sacrificatore di bovini campeggiano tre parole incolonnate verticalmente e centrate su un fiammante sfondo arancione:
Voltaire, ancor più di Aleppo, è parola evocativa. In questo caso sono perfino in grado di collegarla con una certa esattezza a un’immagine che alligna in uno strato poco profondo della memoria: un signore in abbigliamento verosimilmente settecentesco e con grandi occhi bovini, che mi pare di aver visto sulla copertina di un libro. Posseggo dunque un altro frammento dell’opera di costui?
Zadig è evidentemente il titolo, ma che vorrà mai dire quell’Est scritto in un corpo leggermente più piccolo? Apro per la prima volta il libro e osservo i primi fogli a stampa. Il secondo è un semplice frontespizio che ripete l’autore e il titolo, quest’ultimo esteso in Zadig o il destino. Verso il piede della pagina, Est viene rapidamente decodificato in Edizioni Studio Tesi. Ah, già, avrei dovuto capirlo subito, che stupido. Studio Tesi la conosco: era una benemerita casa editrice di Pordenone con un formidabile catalogo di letteratura e saggistica. Dico era perché, come succede a volte alle imprese benemerite, ha chiuso i battenti qualche anno fa. So con certezza che la mia lacunosa biblioteca contiene altri libri di Studio Tesi.
Immagini, parole evocative, autore e casa editrice noti e apprezzati. Questa convergenza di stimoli in pochi centimetri quadrati mi conferma nel convincimento che questo oggetto all’apparenza innocuo sia stato fabbricato apposta per adescare me. Ma le figure e le sollecitazioni della memoria sono solo le forme più esplicite di seduzione. Un’altra insidia molto più sottile ha iniziato a operare silenziosamente fin dalla prima occhiata distratta: senza rendermene conto ho sùbito iniziato a leggere! Prima quelle tre parole sulla copertina, poi la didascalia della figura, poi ancora il frontespizio. E continuo a leggere quasi senza volere, mentre rigiro il libro tra le mani. Al centro della quarta di copertina c’è una frase, due righe appena:
Con ogni probabilità si tratta una citazione dal testo, un piccolo strappo sul velo che lo racchiude. Mostrare una parte che lasci intuire il tutto è arte metonimica da odalisca, un gesto apparentemente casuale, ma in realtà studiato meticolosamente per incantare. Illusionista incantevole e spavaldo: «Com’è pericoloso guardare dalla finestra!» dice lusinghevole, e intanto apre sornione una finestra sul mistero racchiuso tra i piatti di copertina. Come resistere? Infatti non resisto. Apro per la seconda volta il libro e leggo:
«Gioia delle pupille, tormento dei cuori, luce dello spirito, non bacio la polvere dei vostri piedi, perché voi non camminate, o camminate su tappeti persiani o su rose.»
Incipit laudativo che emana un sicuro profumo d’Oriente. Là, sdraiata su morbidi cuscini, la regale sultana. Qui, flesso in profondo inchino, un nobile cavaliere le rende omaggio. Una fiaba! Un racconto che nella metropoli letteraria abita a due passi da Le mille e una notte! Probabilmente s’incontrano tutte le mattine sul pianerottolo per scambiarsi le ultime notizie su Sheherazade. Ah, potrei mai non leggere un libro così? Certamente no. Devo assolutamente comprarlo, e infatti lo porto senz’altro alla cassa, pago, e pago esco, e felice, in strada.
Sì, dev’essere andata così, ma non ho ancora detto la cosa più importante: quando varcai la soglia della libreria non avevo alcuna intenzione di comprare Zadig. Ero entrato ben deciso a comprare una guida turistica del Nepal, lo ricordo bene. Non che avessi intenzione di recarmi in Nepal, ma così, per leggere qualcosa su quel paese a me completamente ignoto. Zadig era là, adagiato su un bancone, e appena mi ha visto ha lanciato tutto il suo repertorio di esche orientali. E io ho abboccato. Non ero io a desiderare il libro, ma il libro a desiderare me. Ecco dunque la risposta alla tua domanda, velociraptor dell’era cyberzoica: il lettore dedica il suo tempo ai libri non già per sua libera scelta, ma perché non sa resistere alle sottili seduzioni messe in atto dai libri per farsi leggere. Fosse per lui, leggerebbe soltanto cartelli stradali o tutt’al più, di tanto in tanto, una guida turistica del Nepal.
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Immagino che tu abbia una biblioteca ben fornita:-)
Bart
monsieur Di Monaco, sospetto che sia una biblioteca ben fornita, ad avere lui… (e comunque concordo: dietro ogni acquisto c’è una seduzione, e dopotutto i libri sono macchine di desiderio, e qualche volta macchine da guerra)
quando ho scoperto che “non bisogna giudicare un libro dalla copertina”, qualche anno fa, ho capito che è dalla combinazione dei fregi tatuati all’interno dei fogli cuciti insieme che stanno dentro, che per lo più i lettori si lasciano affascinare e son disposti a spendere dei soldi. il che è assurdo perché pare che alla fine i suddetti fregi sono poco più di una ventina! sarebbe molto più economico comprarli in scatole all’ingrosso e distribuirli a piacimento. o a esser pignoli e a voler possedere tutti i libri, basterebbe anche combinarli tra loro in tutti i modi possibili, per dirla con Borges!
un saluto.
zop
[PS: ricordo che quando vidi rosencranz e guilternstern, al cinema, in tutta la sala eravamo solo in due, in effetti!]
Un sospetto ben fondato, signora brioscina. Le biblioteche sfuggono da millenni a tutti i tentativi di appropriazione e quella che impropriamente dico mia non fa eccezione.
Zop, l’altro al cinema ero certamente io! Ma tu guarda quanto è piccola la rete. Quanto ai fregi alfabetici, pensavo, siamo sicuri che esaurirne le combinazioni basterebbe a creare tutti i libri possibili? Non si dovrebbe tener conto in qualche modo dell’interlinea, dei segni di interpunzione, dell’ampiezza dei margini, degli a capo?
non è necessario combinare tutti i segni: ne bastano due.
un saluto veloce ma a rileggerti presto
melpunk