La locanda

Henri Regnault, Interno di Taverna, tratto da www.museodevigo.orgMi trovo in una locanda buia e fumosa. Che sia una locanda, a dire il vero, è solo una mia supposizione. Cosa sia veramente questo luogo, se di luogo si tratta, non saprei dirlo con esattezza. Più che fumosa, poi, dovrei dirla nebbiosa o indistinta o vaga: attorno a me vedo soltanto i contorni sfumati di oggetti presumibili, ma di esistenza assai incerta. Vedo tracce labili di tavoli potenziali; odo frammenti di suoni che alludono a voci; fiuto uste deboli e confuse di qualcosa che assomiglia al vino, o forse all’idea del vino, o a un suo lontano ricordo. Quanto all’oscurità, sarebbe più corretto definirla penombra, o meglio ancora citazione di una penombra traslucida, lattiginosa, opalescente.

Che questo che, con molta approssimazione, continuo a chiamare luogo, potrebbe alludere a una locanda, lo deduco dalla presenza appena percepibile di un’atmosfera di viaggi interrotti e ripresi, di presenze aleatorie provenienti da un dove indefinito e dirette verso un altrove incerto. A tratti percepisco impressioni di arrivi e di partenze, ma non saprei dire chi o cosa arrivi, chi o cosa parta. Qui nulla sembra godere di un’esistenza pienamente identificabile: non è possibile indicare un punto preciso come un o un costà, né additare qualcosa e proferire non dico un questo è un oggetto, ma nemmeno un questo è. La mia stessa esistenza, posto che in questo contesto abbia senso dire mia, è affatto ipotetica.

Forse possiedo un corpo, ma non ne sono sicuro, mentre posso dichiarare con ragionevole supponenza di possedere sensi, o quanto meno l’equivalente immaginario dei sensi. Potrei essere un naso prensile e ipovedente, o un occhio leggermente sordo, o una mano dal fiuto un po’ scarso, ma temo che tutte queste ipotesi capziosamente antropomorfiche siano parimenti vane e indimostrabili.

Da un tavolo vicino al mio – in verità non ho alcuna garanzia che sia un tavolo e per quanto ne so potrebbe trovarsi in un’altra galassia – da quel tavolo, dicevo, proviene un suono che si sta facendo via via più distinto. Tendo l’orecchio, o ciò che in qualche modo governa il mio udito, e non senza sorpresa mi accorgo che sto ascoltando un discorso. Non so ancora se si tratta di una conversazione o di un monologo, ma posso captare parole comprensibili. Cerco di isolare il discorso dal rumore allusivo e indistinto in cui sono immerso. Più progredisco in questo esercizio, più mi accorgo che il discorso è sì comprensibile, ma affatto privo di voce: le parole colpiscono quella sorta di mio udito mentale senza toccare alcun organo di senso paragonabile a un orecchio. Questo implica che là, a quel tavolo, non siede nessuno intento a pronunciarle, ma che il discorso si pronuncia da sé medesimo e giunge a me per vie prodigiose che non so spiegare.

Continuo a chiamare questo fenomeno discorso, ma anche questo è inesatto. Questa parola, discorso, allude a un intento comunicativo, a un fine suasorio, a un messaggio da decifrare, ma niente di tutto questo è rintracciabile in ciò che sto ascoltando. Si tratta piuttosto di una successione apparentemente ordinata di parole che si manifestano come mosse soltanto da un clandestino piacere di mostrarsi, una specie di esibizionismo retorico o di seducente svestizione verbale. Questa mostra o vetrina di parole non si organizza attorno a significati precisi, non trasmette messaggi intenzionali, non colpisce l’intelligenza suscitando dubbi e domande o suggerendo risposte. Agisce piuttosto come una danzatrice che muove il proprio corpo, non per trasmettere l’idea del movimento, ma per alludere a esperienze fisiche, moti dell’animo, stati mentali.

Mentre ascolto questa danza, qualche luogo imprecisato di me medesimo raccoglie le allusioni seminate dalle parole e le trasforma – forse per mezzo di arti magiche o forse mediante un incognito apparato digerente – in ordigni che vanno a colpire i miei sensi immaginari: man mano che le parole si muovono, appaiono volti conosciuti che non vedevo da tempo, e che sùbito scompaiono; frammenti di antiche conversazioni fra amici partecipano per qualche istante alla danza; avverto moti di sdegno, talvolta di commozione. Mi rendo conto di sapere – questa volta con sorprendente chiarezza – di essere in viaggio, anche se non ricordo da dove vengo e non conosco la mia meta. Capisco che questo luogo che chiamo locanda è un punto in cui il viaggio si è concesso una pausa, non so quanto lunga, un’interruzione provvisoria che ha già in sé l’idea della ripartenza.

La danza verbale è cessata di colpo. Provo a rintracciarla nel brusìo indistinto della locanda, ma solo per accorgermi che non c’è più brusìo, né locanda. Mi guardo attorno e vedo distintamente la forma e il contenuto del salotto di casa mia. E mi accorgo, non senza un moto di giubilo bambinesco, di avere occhi e orecchie, naso e mani. Mi alzo dalla poltrona per sgranchirmi le gambe, e mi sorprendo a pensare che sì, in effetti ho anche le gambe. Un altro pensiero mi passa per la testa, quello di essere in viaggio, ma il mio stato di quiete al centro di una stanza basta a declassare anche questa idea a sciocca fantasia. Scuoto la testa in segno di autocompatimento per questi comportamenti infantili.

Ripongo il libro nella libreria ed esco in balcone a fumare una sigaretta.

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5 Responses to “La locanda”

  1. gabryella says:

    corbezzoli, sei coinvolgente (e non aggiungo altro)!

  2. Anche questo una sciccheria.

    Bart

  3. Calma says:

    Benefo’, plagio di che? (Luca, ma… Sirchia?)

  4. letturalenta says:

    Sirchia non è ancora arrivato al balcone di casa, per fortuna (ma è solo questione di tempo, mi sa). Quanto al plagio, il Beneforti non ha tutti i torti, anche se io preferirei chiamarlo ‘citazione’, ma son dettagli.

    Gabryella, aggiungi pure lliberamente!

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