O navigatore errabondo e tendenzialmente dispersivo, concediti una breve sosta e fissa la tua attenzione sulla locuzione scrittura creativa.
L’unione in apparenza casta di quel sostantivo con quell’aggettivo è in realtà un accoppiamento innaturale e sfortunatamente non toccato dalla grazia dell’impotentia generandi. Il sostantivo preso di per sé solo, infatti, altro non definisce se non il graffiare del pennino o l’incidere dello stilo, attività prettamente umana e affatto innocua, com’è innocua la concia delle pelli o la trebbiatura del grano. Parimenti innocuo è l’aggettivo quando s’accompagna a sostantivi votati all’astrazione, quali fenomeno o atto, ma in compagnia di termini più prossimi alla terrigna concretezza della materia rivela un’insospettabile inclinazione alle più turpi perversioni.
Egli sa di appartenere alla nobile schiatta delle parole elevate, ma forse proprio per questo va in cerca di relazioni piccanti e deplorevoli con termini di più bassa estrazione sociale per procurarsi il piacere del frutto proibito, non tenendo conto delle conseguenze deleterie che derivano da ciò che egli considera innocenti scappatelle. Perché, vedi, l’espressione scrittura creativa potrebbe ancora essere tollerabile e addirittura divertente, se non creasse terreno fertile per abusi gravissimi.
Consentimi per una volta di indulgere alla tentazione di considerare opportune e sensate le mie similitudini, per mostrarti che la questione non è priva di una sua comicità primitiva, purtroppo degenerata in dramma. Dicevo poc’anzi che la scrittura è attività umana, non diversamente dalla concia delle pelli o dalla trebbiatura del grano. Bene, ora supponi che il nostro creativo adeschi quei sostantivi e osserva il risultato, ovvero concia creativa e trebbiatura creativa.
Noterai che, per ricavare da queste locuzioni una figura simile a quella che ottieni dai soli sostantivi, sei costretto a immaginare una concia che produca qualcosa di diverso da una pelle conciata e una trebbiatura che sfoci in un prodotto ben più nobile del nudo chicco di grano separato dalla pula. Se poi sposti l’attenzione dall’azione all’agente, dovrai figurarti un conciatore alquanto pensoso, probabilmente autore di una poetica della scarnificazione e dell’essiccatura delle pelli, o un trebbiatore perennemente afflitto dalla sua incapacità di produrre il chicco noumenico.
Questo effetto comico si mantiene intatto quando il nostro vizioso aggettivo s’accoppia alla scrittura, se convieni che essa altro non è che l’atto di incidere segni alfabetici o geroglifici su supporti cartacei, o cerosi, o marmorei. L’effetto non muta passando all’agente, se ti astieni per ora dall’indicarlo con una parola affatto falsa e pretestuosa come scrittore, utilizzando invece termini di gran lunga più onesti, come scriba o scrivano.
Lo scriba è un dignitoso funzionario imperiale che redige accurati resoconti di processi o incide su apposite tavole la volontà legislativa del faraone. Mai in vita sua è stato sfiorato dall’assurda pretesa di creare, tanto che la locuzione scriba creativo non risulta attestata in alcun reperto paleografico, e a coniarla oggi non potrebbe indicare altro che uno scriba un po’ svagato, spesso distratto durante il lavoro da insidiosi ragionamenti sull’estetica dei verbali processuali, e quindi assai prossimo al licenziamento per giusta causa.
A questo punto si fa strada l’ipotesi che l’origine dell’espressione scrittura creativa non sia spiegata soltanto dalla perversione dell’aggettivo, ma anche da un’immorale civetteria della scrittura che per favorire l’abboccamento ha indossato un abito provocante con intenzioni evidentemente adescatrici. Da sempre relegata alla base della piramide sociale, fra le parole umili e lavoratrici, essa ha intravisto nel corteggiamento del creativo una possibilità di riscatto da non lasciarsi sfuggire, e c’è da giurare che avesse in mente fin dal principio di gabbarlo, una volta raggiunto lo scopo.
Ha dunque lasciato intendere allo sprovveduto che la scrittura sia mestiere ben diverso dall’inchiostrare carta con segni convenzionali, e che il suo prodotto sia cosa assai più notevole di un semplice foglio inchiostrato, e affatto degna della compagnia di sì nobile qualificativo. S’è dunque data da fare per trasformare la scappatella in fidanzamento e questo in matrimonio. Una volta ascesa al rango di parola elevata, s’è data a menar vita da gran signora frequentando sempre di più la buona società, e sempre meno in compagnia del marito, fino a confondere definitivamente le acque e a far credere a tutti che la scrittura, creativa o meno, appartiene da sempre all’élite dei significanti.
I due malandrini disonesti e perversi non hanno tenuto conto del fatto che la loro unione, scaturita da bassi istinti e trame deplorevoli, era ahimè feconda e ha generato quel mostro informe e deleterio che è lo scrittore, così come oggi lo si intende, ovvero uno scrivano che produce un’opera, parola a sua volta strappata al suo onesto abituro alchimistico per condurla a forza nei fastosi palazzi della scrittura artificiosamente nobilitata. Un disastro di proporzioni incalcolabili. Questo succede a non tenere in debito conto le conseguenze delle proprie male azioni.
Ecco dunque la domanda, e lascio a te l’onere di fornire la risposta: può una locuzione con origini così disoneste pretendere di insegnare ai racconti come muoversi, dove dirigersi e a qual fine?
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sì, credo che possa! le lascio una traccia di scritturacreativa che, sfuggendo a qualsivoglia mia solerte cura, procede senz’intoppi ad incrociare una sua meta certa, sebbene a me risulti alquant’oscura
“erossi tot inarsi, subetille, in despe oriene frassici adelonti – “sòffi!” sinò l’etigme soperosa, inaruggiando spatici liventi “pellìmi grumolosi fin ne’ polli, e stranami pelonta su l’abiete” – stressa, m’arruzzicai nepaminonda ribuzzando lo track: inturo e sosciugato di milene, fessi ‘n desaro occlappo d’intorroni o messi – na muri sidornò, fedicitando natri e pulendi sòffi”
..etc etc etc
(abbia clemenza per questo intervento – e non lo pubblichi, ché ne avrei solo scorno ((“..non è che non possiamo capirci benché eccetera, ma semplicemente perché eccetera. che fa una bella differenza, agli effetti dei miei effetti”))
Troppo tardi, esimia gabryella. Il suo commento, come vede, ha varcato autonomamente le molte difese dai nomi oscuri, quali antispam, moderation rules, blacklist e altre diavolerie del genere. E questo è bene, mi creda. Se vuole, può soffermarsi un poco su quel “fedicitando”, che non mi è completamente chiaro.
una locuzione non insegna, semmai definisce. i racconti si dirigono pressoché ovunque, per fini oscuri a noi tutti, per fortuna,e anche a loro stessi, primariamente a loro stessi. la scrittura creativa mi fa meno paura della cucina creativa e mi fa sorridere ben più della finanza creativa. non trovo gli scrittori informi e deleteri, tutt’altro. almeno, non tutti. e non in virtù della scrittura creativa di cui sarebbero portatori, semmai. inoltre, segnalo che il protagonista di “Una solitudine troppo rumorosa” fa il pressatore di carte, e lo fa in modo creativo. accidenti a lui.
manginobrioches, posso chiederle la cortesia di spiegarmi dove va l’accento sul suo nickname?
In secondo luogo: proprio lei, che è poeta, mi dice che una locuzione non insegna? Lei intende prendermi graziosamente in giro, e fa benissimo.
In questo pezzo (che mi era sfuggito – quel giorno il pc andò in panne), sento profumo di Machiavelli.
Scrittura maiuscola. Di entrambi naturalmente:-).
Bart
Dio me ne guardi, dal prenderLa in giro (e dall’essere poeta). Le locuzioni – semmai – sono locuste, distruggono. Quanto al mio nick, mi sembra non ci siano dubbi in proposito: l’accento cade su “sccccc” (scivola, diciamo). Au revoir