Qui fuori, fra le molte cose che si manifestano ai miei sensi, ce n’è una che fatico a comprendere e a descrivere, tanto da sentirmi obbligato a dubitare della sua presenza. Mi accorgo che desidero conoscere appieno il senso e gli effetti di codesto dubitare, e questo desiderio mi suggerisce – con tono amichevolmente perentorio – di rimandare il tentativo di identificare l’oggetto del dubbio, per riflettere un poco sulla parola presenza.
Essere presente significa essere al cospetto di qualcuno, essere manifesto, concreto, tangibile, corporeo, percepibile, evidente, ostentato, affrontabile. Una presenza è qualcosa con cui posso intavolare una discussione o una contesa o una colluttazione, qualcosa a cui posso in qualche modo applicare la preposizione contro: posso scagliarmi contro un muro, posso argomentare contro un’idea che non condivido, posso lottare contro una malattia.
Posso del pari evitare ogni contrasto con ciò che mi si para davanti: posso fuggire, nascondermi, deviare, inabissarmi, eludere, ma è chiaro che anche in questo caso agirei contro le presenze, per allontanarle da me. Contro le presenze, infatti, la lotta e la fuga sono mezzi diretti al medesimo fine: trasformare la presenza in assenza. La presenza ha in sé un seme di pericolo, di minaccia e di inimicizia, come qualcosa che incombe per colpire alla prima occasione, qualcosa da cui devo difendermi, qualcosa che devo annullare per evitare di essere io stesso ridotto al nulla.
Certo, oltre alla lotta e alla fuga esiste un terzo modo di affrontare le presenze: accettarle, rassegnarsi a loro, conviverci. Questo terzo atteggiamento – non privo in realtà di una venatura sentimentale alquanto dolciastra – è una forma di difesa più blanda, ma sempre di difesa si tratta. Accettare una presenza, conviverci, equivale a differire la lotta o la fuga, rimandare il momento in cui la presenza dovrà essere allontanata, pena l’annullamento di sé. Accettare una presenza equivale inoltre a scommettere sul suo livello di pericolosità, ovvero credere o sperare che non sia letale qui e ora: posso accettare il muro, scommettendo che non mi crollerà addosso per qualche tempo; posso accettare un’idea che non condivido, credendo che quell’idea non voglia disfarsi di me proprio adesso; posso accettare una malattia, sperando che non mi uccida subito.
Fra le molte presenze da cui devo difendermi, la più inquietante e paradossale è la presenza di me. Che io sia presente a me stesso – ovvero al cospetto di me medesimo – lo deduco da molti indizi: odo le mie parole, se parlo; vedo molte parti del mio corpo, anche se non tutte; formulo pensieri che hanno come oggetto me stesso; ogni cosa che faccio ha effetti diretti e immediati su di me. La mia presenza è la più persistente, la più costante fra tutte quelle che mi assediano, e questo mi spinge a credere che sia anche la più pericolosa. Di sicuro è l’unica da cui non avrò mai scampo.
Se lottassi contro me stesso avrei comunque la peggio: se vincessi, infatti, diventerei assente da me stesso, ovvero demente; ma se perdessi la mia presenza annullerebbe me, esito questo che equivale al suicidio. Fuggire da me stesso non posso, se non rassegnandomi a vivere per sempre in uno stato simile al sogno o all’allucinazione, quindi non mi resta che accettare la mia presenza, sperando che la minaccia che essa comporta si manifesti il più tardi possibile. So però che un giorno o l’altro si arriverà alla resa dei conti e che, comunque vada, per me sarà la fine.
Questo pensiero dovrebbe angosciarmi, suppongo, ma confesso che non riesco a cogliere alcunché di spaventevole in questa prospettiva di sicuro annullamento di me. «Tutto sommato» dice la mia presenza a me, o io a lei «sapere che un giorno noi due sprofonderemo nell’oblio e nel silenzio perenne equivale a sapere che moriremo, cosa questa che in verità diamo per scontata già da gran tempo. Che muoia prima io o prima tu in fondo non fa una gran differenza: comunque vada, io non ci sarò più a partire dal momento esatto in cui tu o io saremo consegnati al nulla». E francamente non riesco a darmi torto.
Ora il desiderio di conoscere appieno il mio dubitare sulla presenza di quel qualcosa che faticavo a comprendere e a descrivere, acconsente a considerare conclusa la riflessione sulla parola presenza, e mi comanda di trarre le debite conclusioni. Quel qualcosa, ora che ci ripenso, non ha quegli attributi di incombenza, imminenza e minaccia tipici delle presenze. Se concentro l’attenzione su questa cosa inafferrabile, percepisco chiaramente il suo atteggiamento amichevole o, per meglio dire, percepisco che essa non ha alcun atteggiamento nei miei confronti: lungi dal blandirmi e dal tentare di rendersi a me manifesta e piacevole, piuttosto mi ignora, si cura di restare lontana, silente, astratta, impalpabile, invisibile. L’esatto contrario di una presenza, quindi deve trattarsi necessariamente di un’assenza.
C’è qualcosa di conturbante in questa assenza, qualcosa che mi attira e mi seduce: una sensazione di quiete, una speranza di pace duratura, un’allusione a un mondo accogliente e privo di pericoli, una promessa di felicità. Posso tracciarne un ritratto plausibile solo descrivendola per sottrazione: è ciò che resterebbe se tutte le presenze che mi assillano, inclusa la mia, si allontanassero da me, se tutto ciò che mi parla tacesse, se tutto ciò che mi tocca si disintegrasse, se tutto ciò che mi osserva diventasse cieco, se tutto ciò che mi minaccia diventasse inoffensivo.
E allora capisco, all’improvviso capisco cos’è questa assenza, e l’idea di trovarla seducente e desiderabile mi sgomenta.
hai bevuto troppo assenzio?
Devo fare atto di presenza. Mia moglie di soprassalto dice: -Domani (oggi) è l’ultimo giorno!- Penso al peggio, dimenticanze tributarie? No, domani, (oggi) chiude la galleria Borghese e addio Raffaello! Bene, sbrigherò questa pratica familiare.
“Io diffido dei musei, in primo luogo dei musei istituzionali, che tendono a raccogliere e catalogare “tutto”. La biblioteca è pedante ma onesta. Non predende di essere unica. Il museo esige di essere solitario, esemplare, irripetibile. E fatto di oggetti unici. Ogni esempio è una preda, comprata, catturata, deportata, scovata, scavata, rubata, corrotta, scambiata, trafugata. Un museo presuppone una passione non ignara di delitti, una cupa concentrazione, la mitologica fantasia di poter ritagliare uno spazio piatto e concluso, tolemaico, nel mondo sferico copernicano. Un museo nasconde una macchinazione, una prepotenza, una frode. Raccoglie quelle cose ambigue e un poco sistre che sono i capolavori; colleziona opere d’arte, in nome della bellezza; infine pretende di essere istruttivo.” (Manganelli, la favola pitagorica) Mi informo. Così: Galleria Borghese Piazzale del museo Borghese 5 tel. 06 328101. Biglietto intero 8,50 E. Biglietto ridotto 5,00 E. Biglietto gratis 2,50.
In un paese dove il biglietto gratis costa dueeuroecinquanta, tutto è possibile.
certe assenze di presenza ci appaiono notevolmente più presenti di qualsiasi presenza “assente” – e certo più desiderabili dell’assenza d’assenza (ma, in fondo, tutto è assenza: ogni cosa finora in-essere fa parte d’una realtà che mentre è, già non è più)
Mi affaccio qui, e vedo che hai ripreso a pubblicare. Gran bella sorpresa.
Anche questo è un pezzo da collezione.
Bart
Benritrovati, o transeunti lettori! Al Beneforti garantisco che io, in verità, avevo ordinato presenzio, ma l’oste, infame, ne era sprovvisto. Bella citazione manganelliana, Michele, sempre gradita. Gabryella, il tuo filosofare mi fa piacevolmente girare la testa (forse un principio di assenza di me). Bart, come sempre ti ringrazio per l’incredibile costanza con cui mi leggi.
Da oggi sono in ferie, quindi in vacanza, che è un po’ come dire assente, ecco.
torno a leggerti, lentamente, dopo tanta asSENZA
e quest’ultimo spicchio di Luna salata
così uguale al mio sguardo
vertiginosamente
guida il mio futuro…
Approfitto di una momentanea presenza per salutare anche i cari zop e fruscii (grazie della poesia).
“Presente a me stesso”. Ecco ciò del quale farei volentieri a meno da qualche anno a questa parte. Innumerevoli fallimenti, aspettative deluse, fiducie tradite, sgarbi fatti e subiti. L’interminabile catalogo della disistima, esercizio masturbatorio estremo, cola come come caramello bollente su di me per solidificare e rendere lenti, faticosi, dolorosi i gesti mentali e materiali che una dignitosa reazione richiederebbe. Fermo come un sasso qualsiasi nel greto di un torrente tanto spesso invidiato. Un sasso esiste ma il male del mondo, anche se si dovesse scatenare su di lui, non gli procurerebbe alcun fastidio. Assenza di percezione. Ecco cosa gli invidio, l’assenza di percezioni, l’assenza a se stesso. Per quanto l’incapacità al movimento mi renda simile a quel sasso, non riesco ad evitare lo scorrere di pensieri densi di aspettative e l’automatica disillusione. C’è di certo qualcosa che non funziona. Come se, fermo per ore e ore al semaforo, il verde scattasse solo per chi incrocia la mia strada.
[…] Come argutamente argomentava maria strofa in un commento al post precedente, già vecchio di cinque giorni (il post, dico, non il commento), non è che negli ultimi tempi io sia granché presente qui o in altri lidi blògghici. Non che questo sia un male, per carità, specialmente se ripenso a certe mie divagazioni sulla presenza di qualche mese fa. […]