Sono il primo a dire che ciò che conta di un libro è l’apparato verbale in esso contenuto, ovvero la serie di parole, spazi bianchi e segni d’interpunzione che univocamente lo identifica. La veste tipografica in cui questo ordigno retorico si presenta nulla aggiunge e nulla toglie al suo valore intrinseco.
E tuttavia.
E tuttavia, dico, portarsi a casa la prima edizione di Hilarotragoedia, Feltrinelli 1964, opera prima di Giorgio Manganelli completa di sovracopertina e cartolina editoriale, portarsi a casa cotanto cimelio non è cosa di poco momento. Non ho parole adeguate per descrivere la gioia che provo nel leggere l’apparentemente arido e burocratico colophon Finito di stampare nel mese di aprile 1964 dalla Edigraf – Milano. È una gioia non priva di un tocco di demenza o ebbrezza infantile, una gioia non dissimile da quella che provai di fronte alla mia prima confezione magnum di Nutella, qualche decennio fa, una gioia affine a quella di un indimenticabile amico.
Dio benedica le librerie antiquarie, e i loro titolari, e i commessi, e i loro discendenti fino alla milionesima generazione.
Sono un uomo felice, e per festeggiare il ritrovamento del proto-Manganelli deposito qui un pizzico di testo e paratesto dell’opera in questione.
Incipit
Se ogni discorso muove da un presupposto, un postulato indomostrabile e indimostrando, in quello chiuso come embrione in tuorlo e tuorlo in ovo, sia, di quel che ora si inaugura, prenatale assioma il seguente: CHE L’UOMO HA NATURA DISCENDITIVA. Intendo e chioso: l’omo è agito da forza non umana, da voglia, o amore, o occulta intenzione, che si inlàtebra in muscolo e nerbo, che egli non sceglie, né intende; che egli disarma e disvuole, che gli instà, lo adopera, invade e governa; la quale abbia nome potestà o volontà discenditiva.
Quarta di copertina
Prima opera di uno scrittore quarantenne, l’Hilarotragoedia non è opera facile a definirsi: non è un romanzo, sebbene includa vaste parti narrative; non è un saggio, sebbene simuli la struttura saggistica, ed anzi ambisca all’articolazione capziosa del trattato; potremmo dirla un monologo — non una confessione — ma il monologo di un fool, pronto a cogliere innumerevoli voci, e a scomporsi in queste, destinate poi a confluire in un unico discorso, perplesso ma nettamente articolato. La lingua vorrebbe adattarsi a questa scomposizione e ricomposizione: è ricca di vari umori, fittizia, irta di frammenti di cultura, analogica, metaforica. Come dice il titolo, che ripete il nome di una antica rappresentazione eroicomica, una ilarità demenziale percorre le strutture di questo libro colmo di materiale tragico, anche apertamente sinistro: una buffoneria sacra, l’orrenda gaiezza che cogliamo nel discorso oscuramente significante dei dementi.