Archive for December, 2008

L’incorreggibile Massimo

Wednesday, December 31st, 2008

Massimo D’Alema qualche tempo fa predicava la “equivicinanza” ai contendenti del conflitto israelo-palestinese. Secondo questa raffinata teoria, la politica estera italiana ed europea dovrebbe trattare alla pari Israele — uno stato democratico e membro dell’Onu — e Hamas — un’organizzazione di fanatici razzisti che ha come programma “politico” la distruzione di Israele o, per meglio dire, la cacciata degli ebrei dal sacro suolo di Palestina.

Ma l’incorreggibile Massimo pare non accorgersi di quanto sia stramba e improponibile la sua amata teoria. Ancora ieri ha ribadito che secondo lui bisogna coinvolgere Hamas nella soluzione della crisi di Gaza perché Hamas — dice D’Alema — è stata eletta democraticamente dal popolo palestinese al governo di Gaza.

Bel ragionamento.

D’Alema, questa vignetta di Stefano Disegni (via ipazia) secondo me non l’ha ancora vista, ma gli farebbe tanto bene mandarla a memoria.

La scrittura come oblio

Tuesday, December 23rd, 2008

PerecSegnalo in ritardo (e ci mancherebbe) un bel post di Andrea Inglese uscito qualche giorno fa su Nazione Indiana. L’incipit rende l’idea, ma consiglio vivamente la lettura integrale:

Io ho sempre voluto dimenticare. Il mio problema specifico è dimenticare. Ho sempre avuto molte cose da dimenticare, e questo mi ha tenuto parecchio occupato durante quarantun anni di vita. Purtroppo come tutti ho dei ricordi.

Lo segnalo perché il tema della memoria e quello parallelo dell’oblio mi sono molto familiari. E familiari mi suonano in particolare il rammarico della memoria (purtroppo ho dei ricordi) e l’oblio inteso come lavoro consapevole di rimozione (ho sempre voluto dimenticare). Il lettore bisognoso di conferme e non privo di tempo da buttare clicchi qui.

Nel brano di Inglese la scrittura è vista come rimedio contro l’oblio, un modo per tenere traccia di eventi ordinari e poco memorabili, e giustamente l’autore chiama a sostegno di questa ipotesi Georges Perec, vera autorità in materia di rapporto fra scrittura e memoria (basti pensare al Je me souviens). E io mi diverto a citarlo all’incontrario, Perec, a sostegno di un’ipotesi che sento più vicina: non si scrive per conservare i ricordi, ma per scacciarli.

(I loro di questo brano sono i genitori di Perec. Il padre morì in guerra nel 1940, quando Perec aveva quattro anni. La madre fu deportata ad Auschwitz nel 1943).

Non so se non abbia niente da dire, ma so che non dico niente; non so se quello che avrei da dire non venga detto perché indicibile (l’indicibile non si annida nella scrittura, al contrario, è ciò che ne ha innescato il processo); so che quanto dico è vuoto, neutro, è il segno definitivo di un definitivo annientamento.

È questo che dico, è questo che scrivo e questo racchiudono le parole che traccio, le righe che queste parole disegnano, gli spazi bianchi che traspaiono tra una riga e l’altra: se anche facessi la posta ai miei lapsus (per esempio avevo scritto «ho commesso» invece di «ho fatto» a proposito degli errori di trascrizione nel nome di mia madre), o mi perdessi a fantasticare per due ore sulla lunghezza della mantella di mio padre, o cercassi nelle mie frasi, ovviamente trovandole subito, squisite eco dell’Edipo o della castrazione, non troverei, pur ripetendomi, mai altro che l’ombra fugace di una parola assente alla scrittura, lo scandalo del loro e del mio silenzio: non scrivo per dire che non dirò niente, non scrivo per dire che non ho niente da dire.

Scrivo: scrivo perché abbiamo vissuto insieme, perché sono stato uno di loro, ombra tra le ombre, corpo vicino ai loro corpi; scrivo perché hanno lasciato in me un’impronta indelebile e la scrittura ne è la traccia: il loro ricordo muore nella scrittura; la scrittura è il ricordo della loro morte e l’affermazione della mia vita.

[Georges Perec, W o il ricordo dell’infanzia, traduzione di Henri Cinoc, Einaudi 2005]

Maurizio Sacconi, un ministro incapace e incivile

Wednesday, December 17th, 2008

Da un lato c’è una sentenza della corte di Cassazione che dichiara legale l’interruzione dell’alimentazione forzata per Eluana Englaro.

Dall’altro lato c’è un atto di indirizzo di un ministro che dichiara la stessa cosa illegale in base a documenti privi di forza di legge: “Il documento rinvia alla Convenzione sui diritti delle persone disabili approvata dall’Onu il 13 dicembre 2008 e al parere del 30 settembre 2005 del Comitato nazionale di bioetica”.

Secondo il ministro Maurizio Sacconi una convenzione Onu e il parere di un comitato nazionale hanno forza di legge, addirittura forza maggiore della sentenza di una corte d’Appello confermata in Cassazione.

Secondo me un ministro così palesemente incapace di stabilire la legalità di una procedura medica è un pericolo rilevante per la salute e la vita dei cittadini che si affidano al servizio sanitario nazionale.

Senza contare la bassezza morale del suo gesto, inutile crudeltà ed ennesimo atto di arroganza del potere politico contro un cittadino che da anni si batte con rara dignità e compostezza per vedere riconosciuti i diritti della figlia. Maurizio Sacconi non ignora soltanto la legge, ma anche le basi della civiltà.

Aggiornamento del 18 dicembre: il ministro Sacconi passa dagli atti di indirizzo alle minacce. Cito:

Sacconi non si dà per vinto, e aprendo uno scontro senza precedenti con l’ordine giudiziario ha ribadito che andrà dritto per la sua strada, ovvero quella di sanzionare duramente la clinica di Udine in caso di applicazione dell’ordinanza confermata dalla Cassazione. “Certi comportamenti difformi da quei principi — ha minacciato il ministro — determinerebbero inadempienze con conseguenze immaginabili”.

Minacce velate, oltretutto. Il ministro Maurizio Sacconi non ha nemmeno il coraggio di dichiarare esplicitamente come intende punire la clinica di Udine dove verrà eseguita l’interruzione dell’alimentazione forzata di Eluana Englaro. E visto che dobbiamo immaginare, immagino all’unisono con il neurologo Carlo Alberto Defanti:

“Mi aspettavo manifestazioni di piazza, presidi, ma non un atto così subdolo e sottile — ha commentato — hanno individuato l’anello debole di tutta la catena, la clinica, attuando una minaccia concreta che potrebbe far presumere il venir meno del finanziamento”. “Sembra di essere tornati indietro ai tempi di Montesquieu – ha detto ancora il neurologo – è come non essere più in uno Stato di diritto”.

Sono completamente d’accordo, anche se “subdolo e sottile” mi sembrano aggettivi troppo blandi per questo nuovo gesto del prode Sacconi. Infingardo, meschino e viscido mi sembrano più appropriati.

Chiosa al disvelamento paratestuale di Hilarotragoedia (seconda edizione)

Saturday, December 6th, 2008

Chiosa –> spiegazione, interpretazione. Così recita la sbiadita nota a margine della mia copia di Hilarotragoedia, seconda edizione del 1972. L’ignoto lettore che mi precedette nel possesso del volume non ha lasciato altri esempi della sua calligrafia. Riesco a immaginarlo, pensoso e perplesso, togliere dalla libreria un ponderoso dizionario, cercare con impegno la parola misteriosa, e infine trascrivere a matita sul libro un sunto in due parole della definizione appena scoperta.

Nel momento esatto in cui annotò, l’anonimo annotatore appose a sua volta una chiosa al testo di Manganelli, e per di più a un capitolo intitolato dall’autore chiosa del precedente. Questa chiosa al quadrato è molto manganelliana e particolarmente adatta a un libro che è anche una parodia di certa trattatistica erudita non avara di glosse, note a margine e commenti.

E come tutte le chiose che si rispettino, anche questa contiene un enigma. Perché mai quel lettore invocò il soccorso del dizionario soltanto per una parola tutto sommato non inconsueta? Possibile che solo quella gli procurò un brivido di incomprensione? Colse forse senza bisogno di sussidio alcuno il senso di fràngole e tecche, che avrebbe letto di lì a poco? Possibile che abbia assimilato al primo colpo i ciambreri, le illecebre, gli spiralanti ecatodentati?

La telecamera

Tuesday, December 2nd, 2008

a c.c., g.m., l.w.

Posso sfruttare, in quanto telecamera, un punto d’osservazione non privo di vantaggi: quello di poter vedere senza essere vista, per esempio. O per meglio dire: il vantaggio di essere vista da tutti senza che qualcuno immagini che io possa a mia volta vedere. Meglio ancora – giacché una telecamera vede, e tutti lo sanno – il vantaggio di essere ritenuta inabile a eternare in parole ciò che vedo.

La sala si è popolata di individui di vario sesso ed estrazione sociale, ma tutti accomunati da una postura distratta e pensosa, fatta di movimenti lenti e sguardi diretti a punti imprecisabili del soffitto. Sul palco c’è un signore con pochi capelli bianchi sulla nuca, giacca aperta su una camicia a righe, senza cravatta. Un largo sorriso perenne, quasi benedicente, parte dalle sue labbra carnose per cadere benigno su ognuno degli astanti: egli è il critico. Alla sua sinistra (la destra per me che osservo) siede lo scrittore dai folti capelli, neri come la montatura quadrata dei suoi occhiali, felpa verde su pantaloni chiari di fustagno.
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