Segnalo in ritardo (e ci mancherebbe) un bel post di Andrea Inglese uscito qualche giorno fa su Nazione Indiana. L’incipit rende l’idea, ma consiglio vivamente la lettura integrale:
Io ho sempre voluto dimenticare. Il mio problema specifico è dimenticare. Ho sempre avuto molte cose da dimenticare, e questo mi ha tenuto parecchio occupato durante quarantun anni di vita. Purtroppo come tutti ho dei ricordi.
Lo segnalo perché il tema della memoria e quello parallelo dell’oblio mi sono molto familiari. E familiari mi suonano in particolare il rammarico della memoria (purtroppo ho dei ricordi) e l’oblio inteso come lavoro consapevole di rimozione (ho sempre voluto dimenticare). Il lettore bisognoso di conferme e non privo di tempo da buttare clicchi qui.
Nel brano di Inglese la scrittura è vista come rimedio contro l’oblio, un modo per tenere traccia di eventi ordinari e poco memorabili, e giustamente l’autore chiama a sostegno di questa ipotesi Georges Perec, vera autorità in materia di rapporto fra scrittura e memoria (basti pensare al Je me souviens). E io mi diverto a citarlo all’incontrario, Perec, a sostegno di un’ipotesi che sento più vicina: non si scrive per conservare i ricordi, ma per scacciarli.
(I loro di questo brano sono i genitori di Perec. Il padre morì in guerra nel 1940, quando Perec aveva quattro anni. La madre fu deportata ad Auschwitz nel 1943).
Non so se non abbia niente da dire, ma so che non dico niente; non so se quello che avrei da dire non venga detto perché indicibile (l’indicibile non si annida nella scrittura, al contrario, è ciò che ne ha innescato il processo); so che quanto dico è vuoto, neutro, è il segno definitivo di un definitivo annientamento.
È questo che dico, è questo che scrivo e questo racchiudono le parole che traccio, le righe che queste parole disegnano, gli spazi bianchi che traspaiono tra una riga e l’altra: se anche facessi la posta ai miei lapsus (per esempio avevo scritto «ho commesso» invece di «ho fatto» a proposito degli errori di trascrizione nel nome di mia madre), o mi perdessi a fantasticare per due ore sulla lunghezza della mantella di mio padre, o cercassi nelle mie frasi, ovviamente trovandole subito, squisite eco dell’Edipo o della castrazione, non troverei, pur ripetendomi, mai altro che l’ombra fugace di una parola assente alla scrittura, lo scandalo del loro e del mio silenzio: non scrivo per dire che non dirò niente, non scrivo per dire che non ho niente da dire.
Scrivo: scrivo perché abbiamo vissuto insieme, perché sono stato uno di loro, ombra tra le ombre, corpo vicino ai loro corpi; scrivo perché hanno lasciato in me un’impronta indelebile e la scrittura ne è la traccia: il loro ricordo muore nella scrittura; la scrittura è il ricordo della loro morte e l’affermazione della mia vita.
[Georges Perec, W o il ricordo dell’infanzia, traduzione di Henri Cinoc, Einaudi 2005]