John Locke, Secondo trattato sul governo, 1689.
91. Infatti, poiché si suppone che [il prìncipe assoluto] abbia in sé solo tutti i poteri, sia quello legislativo sia quello esecutivo, non c’è giudice, non c’è possibilità di appello a nessuno che possa decidere in modo equo, imparziale, e con autorità, e dalla cui decisione ci si possa attendere sostegno e riparazione per qualsiasi offesa o danno che si possa aver subìto ad opera del principe o per suo ordine. Così quest’uomo, quale che sia il suo titolo, zar o sultano, o come volete, si trova nei confronti di coloro che sono sotto il suo dominio così come verso il resto dell’umanità nello stato di natura. Ovunque, infatti, si trovino due uomini che non possano appellarsi a una legge certa e a un giudice comune sulla terra per la determinazione delle controversie di diritto tra loro, in quel caso ci si trova ancora nello stato di natura e sottoposti a tutti gli inconvenienti dello stesso, con questa sola infelice differenza per il suddito, o piuttosto per lo schiavo, di un principe assoluto: che mentre nel comune stato di natura, egli ha la libertà di giudicare del suo diritto, e di difenderlo secondo quanto è in suo potere; ora, quando la sua proprietà è violata per volontà o per ordine del suo monarca, egli non solo non ha a chi appellarsi, come coloro che si trovano in società dovrebbero avere, ma, come se fosse stato degradato dallo stato proprio di creature ragionevoli, gli viene negata la libertà di giudicare e di difendere il suo diritto, ed è perciò esposto a tutte le miserie e gli inconvenienti che un uomo può temere da un altro, che, oltre a trovarsi in uno stato di natura privo di limiti, è per di più corrotto dall’adulazione e armato del potere.
[Tratto da: Jonh Locke, Due trattati sul governo, a cura di Brunella Casalini, Pisa 2006]