(Il manoscritto ritrovato di letturalenta. Frontespizio e indice)
A conclusione del mio secondo capitolo compare questa frase (un po’ elegiaca, invero, probabilmente a causa di qualche civetta di passaggio): Quando mi abbandonerete, o immagini viventi di qualsivoglia racconto, quando non avrete più nulla da raccontarmi, allora i segni sparsi sulle mie pagine cadranno per sempre nell’oblìo: dimentichi di tutto, analfabeti, insignificanti.
Ho verso questa mia frase un debito esegetico che non voglio lasciare insoluto. Essa racchiude il non troppo velato timore che un giorno abbia a verificarsi una catastrofe: quando mi abbandonerete, dissi, dando quasi per certo che la minaccia prima o poi prenderà corpo e slancio per abbattersi su di me. Per un racconto sarebbe letale essere abbandonato da coloro di cui si nutre. (Stavolta l’ho acchiappata io, la civetta, una metafora che ha fatto di tutto per non lasciarsi catturare. Perché son bastarde, eh!, bastarde bastarde bastarde! S’infilano dappertutto a tradimento, ma quando ne cerchi una, via che corrono a nascondersi). Nutrimento spirituale, beninteso, non vorrei allarmarti. Il racconto morirebbe d’inedia, simile a un infante abbandonato dalla madre, a un maestro senza allievi, a un seme senza terra, a un operaio lasciato privo di rappresentanza sindacale, a un motore disseccato di carburante, a un ubriaco a cui si nega il vino.
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