Il soprannome di Mario era Busone. Se qualcuno lo salutava con un ciao Mario, quasi si offendeva. Mario non aveva mai nascosto la propria omosessualità, anzi, ci teneva molto a far sapere in giro che gli piacevano i maschi, perché, diceva, già si fa fatica a trovarne, figùrati se pensano che mi piacciono le donne. Passata la sessantina, ricordando gli amori eroici della gioventù, concludeva: eh, alla mia età, con il cuore che comincia a perdere colpi, i bocchini è meglio farli che farseli fare.
Archive for the ‘scrittura’ Category
Già si fa fatica a trovarne
Tuesday, February 8th, 2011Poche pippe
Tuesday, February 1st, 2011Mengoli Antonio di mestiere faceva lo spazzino. Quando al bar arrivava uno nuovo, si presentava a voce alta: Mengoli Antonio, spazzino assunto con contratto a tempo indeterminato presso l’azienda municipalizzata della nettezza urbana, AMNU. Sempre così, anche quando l’AMNU divenne AMIU, poi ACOSER, SEABO e chissà cosa. Un giorno, era ormai prossimo alla pensione, aggiunse: adesso ci chiamano operatori ecologici, ma a me non mi fregano: finché lavoro con la ramazza io sono spazzino, poche pippe.
Diecimila di super
Tuesday, January 25th, 2011Il ragionier Parenti metteva diecimila lire di benzina nella sua Fiat 126 color pisello tutti i giovedì alle sei di sera. Si fermava alla pompa, sempre la stessa, porgeva le chiavi del serbatoio dal finestrino mezzo abbassato e diceva a labbra strette: diecimila di super. Dopo il rifornimento riprendeva le chiavi, dava in cambio una banconota da diecimila, si aggiustava il cappello sulla testa, metteva in moto e ripartiva. Una domenica mattina l’ho incontrato in autobus: non mi ha riconosciuto.
Dodo
Tuesday, January 18th, 2011Lo chiamavamo Dodo e non gli ho mai chiesto quale fosse il suo vero nome, perché, pensavo allora, se anche glielo chiedo, a cosa servirebbe? Tanto continuerei a chiamarlo Dodo. Abitava in un magazzino abbandonato, con la porta di ferro e finestre minuscole. Non era matto abbastanza per finire in manicomio, così si arrangiava a campare come poteva. Un giorno, indicando un macchinone nero fermo al semaforo, mi disse: quello lì dentro sarà anche pieno di soldi, ma è un pezzo di merda come te e me.
In piazza Calderini
Tuesday, January 11th, 2011Sulle mappe piazza Calderini si chiama piazza de’ Calderini, che è il toponimo corretto, ma a Bologna tutti la chiamano piazza Calderini, senza il de’. È di fronte al palazzo delle Poste di piazza Minghetti. In piazza Calderini stazionava un signore molto sorridente, quasi sdentato e affatto sfaccendato, ma cortese e affabile. Una volta, stava leggendo il giornale, mi ha fermato. Non sorrideva. Mi ha chiesto di leggergli un articolo di cui, mi disse, lui capiva solo il titolo: guerra in Kosovo.
La signorina bellina di Milano
Tuesday, January 4th, 2011C’era questa signorina di Milano, molto bellina, sempre in ordine, mani curate, capelli biondi pettinatissimi, avrà avuto sedici anni, diciotto al massimo. La incontravo tutte le mattine sul venticinque, e che lei fosse di Milano lo immaginavo soltanto (l’immagino ancora oggi) perché non le ho mai parlato, ma una volta l’ho sentita dire al telefono: quando finisce la scuola ti raggiungo a Milano. La scuola è finita, è anche ricominciata, ma la signorina bellina di Milano non l’ho mai più vista.
Aforismi concatenati della domenica
Sunday, November 7th, 2010L’imbecille dubita che l’interlocutore sia alla sua altezza. Il sapiente dubita di essere all’altezza dell’interlocutore.
L’imbecille, infatti, è pieno di sé, mentre il sapiente è pieno dell’altro e dell’altrove.
Per via di questo diverso rapporto con l’altro, l’imbecille è convinto* di essere sapiente, mentre il sapiente non esclude la possibilità** di essere imbecille.
Da questo paradosso deriva l’eterna maledizione del mondo, condannato da non so quale nume ironico a essere dominato dagli imbecilli.
Quanto a me, non escludo la possibilità di essere il re degli imbecilli.
——
* L’imbecille è sempre convinto di qualcosa.
** Il sapiente tende a pensare in termini probabilistici, quindi non sarà mai pienamente convinto di alcunché.
Comunicazione
Saturday, October 16th, 2010E poi c’è questa faccenda della comunicazione. Un testo scritto, si sente dire spesso, è un messaggio, quindi anche un romanzo, una poesia o un racconto sono un messaggio con tanto di mittente (l’autore), canale di trasmissione (la scrittura) e destinatario (il lettore), e magari anche uno scopo ben determinato come, che so, trasmettere una visione del mondo, erudire il lettore sul senso ultimo della vita, mostrargli il lato oscuro della forza, cose così.
Ora, se osserviamo attentamente una persona che legge poesia o prosa narrativa, non tarderemo ad accorgerci che è letteralmente fuori di sé: non fa caso ai rumori circostanti, il suo volto assume espressioni del tutto irrelate a ciò che le accade attorno, e la vediamo trasalire (cioè risalire all’improvviso in sé stessa) se qualcuno le tocca una spalla. La persona che legge non sembra davvero il soggetto più adatto a ricevere e decifrare un messaggio.
Ma anche il mittente non è messo molto meglio. Parafrasando Rimbaud (e forse citando Blanchot, ma non mi ricordo, e in fondo chissenefrega), dico che chi scrive è un altro, frase che può essere interpretata in almeno due modi. Il primo, diciamo sociale, è che chi si accinge a mettere per iscritto una storia o un proprio profondissimo pensiero, in realtà ha ricevuto da altri — le comunità di cui fa parte — tanto il contenuto della sua opera quanto la lingua in cui la scriverà: chi scrive trascrive. La seconda interpretazione, diciamo psicologica, è che l’io scrivente è altro dall’io biografico: la persona che scrive, quella in carne e ossa, non può passare tal quale sulla pagina, ma è costretta a utilizzare la mediazione del linguaggio, con tutti i suoi tic, pregiudizi, posture stilistiche, doppi sensi e altre ambiguità. Può un personaggio così gravemente alienato trasmettere un messaggio preciso?
Sia chi scrive sia chi legge, insomma, non è nelle condizioni migliori per comunicare, ma anche il mezzo prescelto per l’ipotetica trasmissione del messaggio, la lingua scritta, non è un gran mostro di precisione. Nel suo libro Una storia della lettura Alberto Manguel cita il più antico esempio di scrittura: due sassi rinvenuti a Tell Brak, in Siria, di forma vagamente ellittica, che recano impressa in cima una tacca che rappresenta il numero dieci e, al centro, il disegno stilizzato di un animale, forse una pecora.
Circa seimila anni fa, un allevatore siriaco andò alla locale fiera del bestiame portando con sé le sue tre pecore migliori e una trentina di sassi simili a quelli citati da Manguel. «Son mica scemo» pensò «a portarmi dietro trecento pecore, col rischio che qualcuna scappi o che i banditi me le rubino». Un compratore venne da lui e disse «belle queste pecore, ne prendo venti», e lui rispose «eccoti due sassi da dieci. Portali alla casa di Gino il Caldeo, che sarei io, terzo villaggio a sinistra sulla via di Damasco, e il guardiano ti darà venti pecore. Fanno tre scicli e ottanta».
La scrittura nacque quindi per redigere contratti di vendita, e qui vale la pena sottolineare che di tutti i discorsi che si scambiarono Gino il Caldeo e il compratore per chiudere la trattativa — condita da diversi insulti levantini qui irripetibili — alla scrittura fu affidata soltanto la frase «dieci pecore» incisa sui sassi. Rara accortezza. Sapevano infatti entrambi, Gino e l’altro, che la scrittura è uno strumento inesatto e ambiguo, bisognoso di interpretazione e dunque fonte di inesauribili contese, utile per evitare di portarsi appresso trecento pecore, ma pericolosissimo per trasmettere messaggi che non si accontentino di due parole al massimo, tipo “dieci pecore”, “ti amo”, “sto morendo” o “vaffanculo”.
Assai meno prudente fu un romanziere fenicio che pochi millenni più tardi utilizzò la scrittura per rappresentare artisticamente la sua infanzia infelice. Il romanzo, purtroppo perduto, mostrava attraverso una fine indagine psicologica come le privazioni inflitte da una madre viziosa al protagonista avessero minato in modo irrimediabile la sua autostima, trasformandolo in un serial killer che solo un sagace ispettore di polizia riuscì a smascherare fingendosi una meretrice ittita. Il governatore di Sidone, acuto lettore, interpretò il romanzo come piena e spontanea confessione di atroci delitti, e fece senz’altro decapitare il romanziere, restando provvidenzialmente sordo ai di lui disperati appelli alla sospensione dell’incredulità e alla separazione fra autore e io narrante.
L’episodio del romanziere fenicio (rigorosamente autentico, viste le numerose gazzette coeve che ne danno notizia) dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che trasmettere un messaggio per via di storie, immaginazioni, rappresentazioni sceniche, racconti, romanzi e altre finzioni è una pia illusione. La scrittura non comunica. La scrittura confonde, svia, nasconde, inganna, copre, falsifica. È nata per stipulare contratti, c’è poco da fare, e alla base di ogni contratto degno di questo nome c’è l’implicita intenzione di turlupinare la controparte. Gino il Caldeo portò al mercato le sue pecore migliori e incise sui sassi la frase «dieci pecore» con la precisa intenzione di far credere al compratore che egli avrebbe portato a case dieci pecore di pari qualità. Il compratore — che in questa storia, lo diciamo per i lettori più distratti, rappresenta il lettore — ebbe in cambio di quel paio di sassi venti pecore macilente, sgalfie, prossime al suicidio, spompate, talune perfino indegne del nome di pecora.
La morale della favola è così ovvia che quasi ci si vergogna a enunciarla: non fidarti mai, lettore, dei romanzieri che infarciscono i loro romanzi di massime morali, visioni del mondo o vaghi appelli alla pietas. Romanzieri siffatti credono davvero che scrivere equivalga a comunicare. Sono individui pericolosi, lettore, e non sempre c’è in giro un savio governatore pronto a decapitarli.
L’etteratura è morta
Tuesday, April 13th, 2010L’etteratura è morta, dicono. C’è chi dice che è morta da almeno trent’anni, altri da trentacinque. I più pessimisti datano la morte dell’etteratura ai primi anni del ventesimo secolo. Pare infatti che a differenza di uomini, animali, piante e altri agglomerati di sostanze organiche senzienti e non, non esista ancora un metodo condiviso per stabilire l’esistenza in vita dell’etteratura, con il risultato che ognuno si può prendere la libertà di farla morire un po’ quando gli pare.
Tant’è che — sembra assurdo, lo so, ma è così — c’è perfino gente che sostiene che l’etteratura in realtà è viva e non se la passa neanche tanto male.
Le cause di queste difficoltà di accertamento e datazione del decesso non sono completamente note, né facilmente deducibili dal fenomeno in sé, e tuttavia non è irragionevole ipotizzare che fra esse ci sia la mancanza di un accordo fra gli operatori del settore circa l’assetto ontologico dell’etteratura. Fra le molte scuole di pensiero citeremo qui solo le principali.
La scuola empirica insegna che l’etteratura è l’insieme di ciò che è contenuto negl’ibri. Alle numerose richieste di un parere scientifico su cosa siano gl’ibri, i massimi esponenti della scuola empirica han sempre fatto orecchie da mercante.
La scuola soggettivista fa coincidere l’etteratura con l’atto dell’èggere. Secondo questa scuola l’ettore è il vero artefice del fenomeno etterario. Ai frequentatori più assidui dell’annosa questione non sfugge il subdolo sottinteso etimologico di questa posizione.
La scuola accademica afferma che l’etteratura è il museo delle opere storicamente accolte nel canone etterario da un’élite di ettori specialisti. Se richiesti di specificare i requisiti necessari per entrare a far parte di quella élite, i membri della scuola accademica generalmente fischiettano.
La scuola ideologica, infine, sostiene che l’etteratura è la rappresentazione simbolica dei miti e delle fobie di un popolo. Va da sé che se chiedete a un ideologico di definire popolo, egli vi rimanderà alla sociologia, all’antropologia, alla glottologia o a qualsivoglia altra materia in cui si sarà preventivamente dichiarato incompetente.
Essendo impossibile dare una risposta condivisa alla domanda cos’è l’etteratura?, gli esperti solitamente si accordano su proposizioni apodittiche del tipo l’etteratura c’è, spostando di fatto il discorso da un contesto razionale a uno fideistico e rimandando sine die una definizione articolata dell’ente. L’esistenza dell’etteratura, insomma, sembra essere una questione di fede, non di ragione e, date queste premesse, stabilire se l’etteratura è viva o morta è di fatto una disputa teologica.
Nessuna sorpresa, quindi, se l’ettore laico e diabolicamente materialista, quando qualche esponente di una o più delle succitate scuole gli viene a raccontare che l’etteratura è morta, risponda con l’inciviltà che lo contraddistingue e un bel chissenefrega non vogliamo mettercelo? e continui di poi a èggere, beffardo e imperterrito, incurante della costernazione del necroforo di turno.
Elegia
Monday, April 12th, 2010Io lo so, l’ho sempre saputo, che la vita ruba molto e rende poco. Io so che voi tutti, amici antichi e nuovi, così loquaci un tempo, oggi tacete perché la vita, gran ladra, vi ha rubato. Io lo so che questo silenzio attonito non è una vostra scelta, ma la conseguenza naturale del fatto che la vita, immensa truffatrice, vi ha rubato tutto, voce compresa.
Ricordate, amici, i tempi belli? Ricordate anche voi quei tempi in cui il sole non aveva il permesso di tramontare senza che noi ci fossimo incontrati sulla piazza per parlare, discutere, dissezionare le cose con lame taglientissime forgiate nel discorso, nella logica, nella passione invincibile di chi ha tutto il tempo di immaginare un mondo migliore?
Cosa è successo dopo? Quale forza imprevista perfino da noi — gente così abile a scandagliare le cause e a prevedere gli effetti — ha potuto sciogliere la nostra congrega senza nemmeno lasciarci il tempo di rendercene conto? Per quale ragione la piazza è rimasta deserta senza che uno solo fra noi abbia scelto deliberatamente di abbandonarla?
Ci siete stati ultimamente? Avete visitato i luoghi in cui eravamo soliti riunirci per tirare di scherma coi nostri ragionamenti, fra risate plenarie e reciproche canzonature, alla luce di lampioni che potevamo spegnere quando volevamo a calci o a gomitate? Ci siete stati? Avete visto che disastro, che desolazione, che spreco di spazio, che silenzio?
Puttana di quella vacca di un vita: possibile che basti crescere, maturare, sposarsi, diventare adulti e responsabili, lavorare, fare figli, accendere mutui, perdere il lavoro o divorziare per dimenticare tutto quello che siamo stati, per dimenticare tutto quello che volevamo essere, per dimenticare tutto?
Sia come sia, vada come vada, io non vi dimentico. Di ciascuno di voi conservo un ricordo, a mo’ di speranza di incontrarvi ancora quando la vita puttana concederà a voi e a me una tregua, o magari dopo. Ricordo le serate passate a designare chi avrebbe dovuto verniciare cazzi neri sul candido muro di quel grandissimo stronzo del Carugati; ricordo le dure invettive contro il cattocomunismo; ricordo le ore passate a stabilire se sia più grande Tolstoj o Dostoevskij, Schopenhauer o Hegel, Borg o McEnroe; ricordo i mal di pancia provvidenziali per restare solo con Chiara; ricordo le transumanze verso qualunque meta sapesse di agriturismo o di bistecca, pur di radunarci; ricordo le terrazze romane e il trenino per Acilia; ricordo tutti gli incontri occasionali, tutte le chiacchiere, tutti gli arrivi e tutti i passaggi in stazione per ripartire; ricordo tutti i libri prestati e mai restituiti; ricordo tutti i libri consegnati e mai pagati; ricordo tutti i libri mai consegnati.
Io, uno che a malapena ricorda a sera quel che ha fatto la mattina, ricordo tutto di ognuno di voi. Qualunque cosa accada, amici antichi e nuovi, ricordate anche voi per sempre le mie parole: non vi libererete tanto facilmente di me.
Una scrittura bella
Friday, December 11th, 2009Talvolta capita, leggendo in giro, che il lettore scovi ponderose riflessioni e accesi dibattiti sui doveri dello scrittore: e chi dice che lo scrittore ci deve avere l’impegno civile; e chi dice che la scrittura deve cambiare il mondo; e chi dice che lo scrittore deve scrivere chiaro; e chi dice che deve scrivere scuro; e chi dice. Gli autori di queste ponderose riflessioni son il più delle volte persone che pubblicano libri: romanzi, poemi, saggi di critica letteraria.
Altre volte capita, leggendo in giro, che il medesimo lettore si imbatta in una scrittura bella, semplicemente bella, con uno stile miracolosamente commisurato al contenuto, un bel ritmo, una singolare capacità comunicativa. Una scrittura che dice, senza che nessuno le dica cosa dovrebbe dire. Una scrittura che è, senza preoccuparsi di come dovrebbe essere. Potrei sbagliare, ma scommetto che l’autrice di questo gioiellino non ha mai pubblicato un romanzo, un poema, un saggio di critica letteraria.
Quello volte lì, quando trova una scrittura bella, il lettore intuisce che chi scrive ha un dovere solo: scrivere bene.
Amleto
Thursday, November 19th, 2009Callisto: Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quan
Mario: Mario. Mi chiamo Mario.
C. E che c’entra, scusa?
M. C’entra che se tu vuoi parlare con uno che si chiama Mario chiamandolo Orazio, c’è anche caso che Mario non ti ascolti, Callisto.
C. Va bene, riformulo. Ci sono più cose in cielo e in terra, Mario, di quante ne sogni la tua filosofia.
M. Non sono un filosofo, sono un idraulico.
C. Ah be’, ma allora dillo che non ti va mai bene niente. Quanto sei indisponente!
M. No, sono solo preciso. Se ritieni eccessiva questa mia cura dei dettagli, l’aggettivo corretto è pedante, non indisponente.
C. Prendo atto della correzione, Mario. Possiamo andare avanti?
M. Sì. Stavi dicendo, Callisto?
C. Dicevo che in cielo e in terra ci sono più cose di quante tu ne possa immaginare. Sei d’accordo?
M. Mica tanto. Fammi un esempio.
C. Ma insomma, di che esempi avrai mai bisogno? Guardati un po’ attorno no? Non vedi anche tu che
M. Alt!
C. Cosa c’è che non va adesso?
M. C’è che prima mi dici che in cielo e in terra ci sono più cose di quante io ne immagini, poi mi inviti a verificare questa tua affermazione guardando e vedendo, usando cioè il senso della vista, che è cosa affatto diversa dall’immaginazione. Semmai avresti dovuto chiedermi di immaginare cose, per poi verificare (spetta a te, infatti, l’onere della prova) se la capienza della mia immaginazione sia inferiore a quella del cielo e della terra, come tu sostieni.
C. Mario.
M. Sì?
C. Immagina cose, per favore.
M. In questo momento sto immaginando un pastore maremmano in sella a una bicicletta con le ruote quadrate. Entra in pista, parte velocissimo, cicca la biglia di Gimondi e quella di Girardengo e si ferma a meno di un palmo da entrambe. Il pastore maremmano scende dalla bici, mette in tasca le biglie conquistate e si avvia tutto contento a prendere la metropolitana.
C. Ah ah ah! Tutto qui? Per batterti mi basta citare le foglie di quella siepe d’alloro: riesci a contarle? Sono centinaia, molto più numerose delle cose che hai immaginato.
M. Sì, ma tu hai mai preso la biglia di Gimondi e quella di Girardengo in un colpo solo a ciccopalmo?
C. No.
M. Allora ho vinto io, perché ho immaginato una cosa che per tua stessa ammissione non sta né in cielo né in terra, mentre io posso immaginare le foglie di quella siepe una a una, e persino immaginarne altre che nella siepe non ci sono.
C. Sei diabolico, Mario.
M. No, sono solo preciso.
…
M. Callisto, quella frase di prima, quella che ci sono più cose eccetera, non la dice Amleto nell’Amleto di Shakespeare?
C. Certo, Mario.
M. E allora, se la dice Amleto, perché tu ti chiami Callisto?
Riflessione per sottrazione
Wednesday, November 18th, 2009La riflessione per sottrazione parte da un luogo comune pronunciato da Un Tizio Qualunque (UTQ) e procede per passi, con UTQ che a ogni giro toglie alla frase una o più parole. Man mano che la frase muta, l’Aspirante Riflettore Sottrattivo (ARS) esprimerà considerazioni proprie sulla parte restante. Al termine dell’esercizio l’ARS avrà compreso che i luoghi comuni sono involucri di innocua apparenza usati dagli esseri umani per celare ordigni letali. Segue un esercizio svolto.
***
UTQ: La vita è una cosa meravigliosa
ARS: Oh, che bello! Grazie per avermelo detto! Ero giusto qui che cercavo di capire perché ogni giorno che passa l’unica cosa che aumenta è la mia età, mentre diminuiscono senza che io possa farci niente altre cose a cui pure terrei, come la probabilità di arrivare vivo alla pensione, la speranza di lasciare ai posteri un mondo più accogliente e — non ultimo — diminuisce il tempo che mi separa dalla morte. Mi chiedevo appunto che senso ha la vita, se non quello di una corsa dissennata verso l’avello, ma tu ora mi dici — caro! — che la vita è una cosa meravigliosa! Proprio le parole di cui avevo bisogno per smettere di pensare! Grazie, grazie, grazie.
UTQ: La vita è una cosa
ARS: Una cosa, un oggetto come un altro. Ogni cosa ha un valore d’uso e uno di scambio. Uno dei trucchi per accumulare ricchezza è quello di alzare surrettiziamente il valore di scambio delle cose meno utili, e il trucco per aumentare il valore di scambio in carenza di utilità è limitare l’accesso a quelle cose per renderle desiderabili: più è difficile procurarsele, più assomigliano a un privilegio, più valgono. La vita è troppo utile e troppo accessibile per valere qualcosa.
UTQ: La vita è una
ARS: E chi ti dice questo solitamente assume un’espressione grave e cogitabonda, e aggiunge: “quindi vedi di non sprecarla”. E se fossero molte, le vite? Se il segreto stesse proprio nel viverne quante più possibile, avendo cura di dissiparle tutte con intelligenza per il bene proprio e altrui?
UTQ: La vita è
ARS: L’inganno dell’eterno presente, l’illusione che vivere significhi esserci adesso. Sto dimenticando a poco a poco che la vita fu e che sarà, sto rinunciando al dovere e al piacere di fare memoria e a quello di passare le consegne. Presto sarò pronto per l’imbalsamatore.
UTQ: La vita
ARS: Eh, la vita, la vita…
UTQ: La
ARS: Articolo terminativo.
UTQ: (…)
ARS: .
Invettiva contro un improvvido laudator di giorni
Wednesday, November 11th, 2009Improvvido laudator di giorni: «Oh, che bella giornata!»
Inveito interlocutore: «Innanzitutto, mio giocondo inavvertito esclamatore, considera che sono le sette di mattina, un po’ presto per esprimere un giudizio estetico su un’entità — la giornata, appunto — che ha ancora davanti a sé la maggior parte della sua esistenza, e dunque tempo sufficiente per mutar registro e prendere direzioni inopinate fino a guastarsi in via definitiva. Non che io speri che la tua mente infiacchita sia in grado di reggere il peso di un paragone, ma che diresti se di fronte a un neonato qualcuno esclamasse “oh, che bell’uomo! che bel carattere! quanta rettitudine nei suoi atti e quanta grazia nei suoi ragionamenti!”?: non ti sembrerebbero prematuri codesti giudizi, e prossimo alla demenza colui che li esprime? Ma ammettiamo pure, per amor di discussione, che quel tuo fiato esclamativo rappresentasse ellitticamente non un giudizio su un fatto compiuto, bensì un auspicio sul suo divenire, e che presa nella sua interezza la frase suonasse piuttosto “oh, come si preannunzia bella questa giornata!”, ebbene, non avresti ancora detto alcunché di sensato, perché marcato come sei da una superficialità degna di un canotto, ti sei accontentato di un raggio di sole che rischiara l’oriente per abbandonarti all’ottimismo, mentre basterebbe anche solo un’occhiata distratta laggiù, a ovest, per capire che quella striscia nera in avvicinamento promette pioggia a martello.
Ma una giornata, mi dirai tentando di cambiare discorso, può essere bella sotto altri aspetti, anche se grigia e piovosa sul piano meteorologico. Ma bene… ma bravo… ma che innata simpatia… Maramaldo! Possibile che il mondo, la realtà, le cose, le materialissime, durissime, taglienti cose, al tuo cospetto si trasformino in uno svolazzo di farfalle che a mala pena ti sfiora? Possibile che niente, e dico niente di quel che succede qui, ora, a un palmo da te, abbia la capacità di attirare la tua attenzione, di accendere in te la luce del pensiero — e ci si accontenterebbe di un lumino votivo, neh, mica si pretende un faro — e di farti pronunciare parole che lascino intuire anche solo vagamente di essere il frutto di un ragionamento, dell’elaborazione mentale di dati di realtà, di una riflessione magari non profondissima e originale, ma sufficiente a presupporre un encefalogramma non piatto?
Allora è bene che tu sappia che oggi scade la bolletta della luce, che il conto è in rosso da una settimana, che il mio stipendio, se arriva, arriva fra quindici giorni, che c’è lo sciopero degli autobus e arriverò tardi in ufficio e che — unica notizia positiva — la lampadina del tinello è ancora fulminata, così almeno risparmiamo corrente, ma soprattutto è bene che tu sappia, o inutile scarto del creato, che, da qualunque lato la si guardi, questa ha tutte le carte in regola per diventare una vera, inappellabile e paradigmatica giornata di merda».
Bisognerebbe scrivere un libro
Wednesday, October 28th, 2009Bisognerebbe scrivere un libro in cui non succede mai niente di importante.
Bisognerebbe scrivere un libro in cui due signori si incrociano per strada. «Ciao» dice il primo «saranno trent’anni che non ci vediamo». «Proprio vero. Allora ciao» dice l’altro, e corre via.
Bisognerebbe scrivere un libro in cui un uomo e una donna sono seduti al tavolino di un bar. Lei dice «sei carino», lui dice «sei carina», allora lei si alza, va alla cassa e dice «cappuccio e cornetto», la cassiera risponde «due e dieci», lei paga, esce dal bar e prende a destra, poi lui si alza, va alla cassa e dice «cappuccio e cornetto», la cassiera risponde «due e dieci», lui paga, esce dal bar e prende a sinistra.
Bisognerebbe scrivere un libro in cui sono vietate le descrizioni generiche.
Bisognerebbe scrivere un libro in cui invece di scrivere «la stanza è spaziosa» si scriverebbe «il pavimento contiene ventisette piastrelle venti per venti da est a ovest e trentatrè piastrelle venti per venti da nord a sud, quindi la stanza misura cinque metri e quaranta per sei e sessanta, che fanno trentacinque virgola sessantaquattro metri quadri: ne ho viste di più piccole».
Bisognerebbe scrivere un libro in cui invece di scrivere «portava un maglione amaranto» si scriverebbe «portava un indumento che gli avvolgeva il busto dal collo alla cintura e le braccia dalle spalle ai polsi, di un colore che a occhio e croce poteva essere un RGB 195,30,30».
Bisognerebbe scrivere un libro di critica spietata alle idee ricevute.
Bisognerebbe scrivere un libro in cui un insegnante di geografia delle medie entra in classe il primo giorno di scuola e dice «ragazzi, vi avranno detto non so quante volte che Roma è in Italia, che l’Italia è in Europa, che l’Europa è nell’emisfero boreale, che l’emisfero boreale è nel pianeta Terra e che il pianeta Terra è nel sistema solare. Sono tutte cazzate».
Bisognerebbe scrivere un libro in cui un teologo incontra un altro teologo e gli chiede «Dio esiste?» e l’altro risponde «dipende».
Bisognerebbe scrivere un libro, ma mica oggi.