E poi c’è questa faccenda della comunicazione. Un testo scritto, si sente dire spesso, è un messaggio, quindi anche un romanzo, una poesia o un racconto sono un messaggio con tanto di mittente (l’autore), canale di trasmissione (la scrittura) e destinatario (il lettore), e magari anche uno scopo ben determinato come, che so, trasmettere una visione del mondo, erudire il lettore sul senso ultimo della vita, mostrargli il lato oscuro della forza, cose così.
Ora, se osserviamo attentamente una persona che legge poesia o prosa narrativa, non tarderemo ad accorgerci che è letteralmente fuori di sé: non fa caso ai rumori circostanti, il suo volto assume espressioni del tutto irrelate a ciò che le accade attorno, e la vediamo trasalire (cioè risalire all’improvviso in sé stessa) se qualcuno le tocca una spalla. La persona che legge non sembra davvero il soggetto più adatto a ricevere e decifrare un messaggio.
Ma anche il mittente non è messo molto meglio. Parafrasando Rimbaud (e forse citando Blanchot, ma non mi ricordo, e in fondo chissenefrega), dico che chi scrive è un altro, frase che può essere interpretata in almeno due modi. Il primo, diciamo sociale, è che chi si accinge a mettere per iscritto una storia o un proprio profondissimo pensiero, in realtà ha ricevuto da altri — le comunità di cui fa parte — tanto il contenuto della sua opera quanto la lingua in cui la scriverà: chi scrive trascrive. La seconda interpretazione, diciamo psicologica, è che l’io scrivente è altro dall’io biografico: la persona che scrive, quella in carne e ossa, non può passare tal quale sulla pagina, ma è costretta a utilizzare la mediazione del linguaggio, con tutti i suoi tic, pregiudizi, posture stilistiche, doppi sensi e altre ambiguità. Può un personaggio così gravemente alienato trasmettere un messaggio preciso?
Sia chi scrive sia chi legge, insomma, non è nelle condizioni migliori per comunicare, ma anche il mezzo prescelto per l’ipotetica trasmissione del messaggio, la lingua scritta, non è un gran mostro di precisione. Nel suo libro Una storia della lettura Alberto Manguel cita il più antico esempio di scrittura: due sassi rinvenuti a Tell Brak, in Siria, di forma vagamente ellittica, che recano impressa in cima una tacca che rappresenta il numero dieci e, al centro, il disegno stilizzato di un animale, forse una pecora.
Circa seimila anni fa, un allevatore siriaco andò alla locale fiera del bestiame portando con sé le sue tre pecore migliori e una trentina di sassi simili a quelli citati da Manguel. «Son mica scemo» pensò «a portarmi dietro trecento pecore, col rischio che qualcuna scappi o che i banditi me le rubino». Un compratore venne da lui e disse «belle queste pecore, ne prendo venti», e lui rispose «eccoti due sassi da dieci. Portali alla casa di Gino il Caldeo, che sarei io, terzo villaggio a sinistra sulla via di Damasco, e il guardiano ti darà venti pecore. Fanno tre scicli e ottanta».
La scrittura nacque quindi per redigere contratti di vendita, e qui vale la pena sottolineare che di tutti i discorsi che si scambiarono Gino il Caldeo e il compratore per chiudere la trattativa — condita da diversi insulti levantini qui irripetibili — alla scrittura fu affidata soltanto la frase «dieci pecore» incisa sui sassi. Rara accortezza. Sapevano infatti entrambi, Gino e l’altro, che la scrittura è uno strumento inesatto e ambiguo, bisognoso di interpretazione e dunque fonte di inesauribili contese, utile per evitare di portarsi appresso trecento pecore, ma pericolosissimo per trasmettere messaggi che non si accontentino di due parole al massimo, tipo “dieci pecore”, “ti amo”, “sto morendo” o “vaffanculo”.
Assai meno prudente fu un romanziere fenicio che pochi millenni più tardi utilizzò la scrittura per rappresentare artisticamente la sua infanzia infelice. Il romanzo, purtroppo perduto, mostrava attraverso una fine indagine psicologica come le privazioni inflitte da una madre viziosa al protagonista avessero minato in modo irrimediabile la sua autostima, trasformandolo in un serial killer che solo un sagace ispettore di polizia riuscì a smascherare fingendosi una meretrice ittita. Il governatore di Sidone, acuto lettore, interpretò il romanzo come piena e spontanea confessione di atroci delitti, e fece senz’altro decapitare il romanziere, restando provvidenzialmente sordo ai di lui disperati appelli alla sospensione dell’incredulità e alla separazione fra autore e io narrante.
L’episodio del romanziere fenicio (rigorosamente autentico, viste le numerose gazzette coeve che ne danno notizia) dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che trasmettere un messaggio per via di storie, immaginazioni, rappresentazioni sceniche, racconti, romanzi e altre finzioni è una pia illusione. La scrittura non comunica. La scrittura confonde, svia, nasconde, inganna, copre, falsifica. È nata per stipulare contratti, c’è poco da fare, e alla base di ogni contratto degno di questo nome c’è l’implicita intenzione di turlupinare la controparte. Gino il Caldeo portò al mercato le sue pecore migliori e incise sui sassi la frase «dieci pecore» con la precisa intenzione di far credere al compratore che egli avrebbe portato a case dieci pecore di pari qualità. Il compratore — che in questa storia, lo diciamo per i lettori più distratti, rappresenta il lettore — ebbe in cambio di quel paio di sassi venti pecore macilente, sgalfie, prossime al suicidio, spompate, talune perfino indegne del nome di pecora.
La morale della favola è così ovvia che quasi ci si vergogna a enunciarla: non fidarti mai, lettore, dei romanzieri che infarciscono i loro romanzi di massime morali, visioni del mondo o vaghi appelli alla pietas. Romanzieri siffatti credono davvero che scrivere equivalga a comunicare. Sono individui pericolosi, lettore, e non sempre c’è in giro un savio governatore pronto a decapitarli.