A volte capiterà anche a te, lettore periferico e saltuario, di chiederti se la lettura serve a qualcosa o se non sia piuttosto una forma mascherata di vagabondaggio, un desiderio inconfessabile di nulla, di vuoto, di assenza, assenza di fatica e di dolore, in primo luogo.
A me talvolta succede. Non tanto spesso, per carità, altrimenti va a finire che comincio a raffigurare me stesso in una di quelle orrende pose da aspirante intellettuale, come uno che si fa fotografare con la mano chiusa a sostenere il fardello di una pesantissima intelligenza, lo sguardo intensamente perduto in meditazioni così profonde da condurre il soggetto all’annegamento mentale.
Però a volte succede, specialmente dopo aver speso una manciata di mezzore a leggere un romanzuccio tristanzuolo e pretenzioso, sebbene da molti laudato un po’ a paperella, l’uno via l’altro, quasi per contagio epidemico di idee ricevute.
Quando arriva la fatidica domanda — serve a qualcosa leggere? — il rischio maggiore che si corre è tentare di darsi una risposta. Le risposte a domande del genere sono una forma di consolazione simile a quella di cui chiunque si sarà gratificato almeno una volta nella vita, trovandosi in un precipizio di estremo bisogno o pericolo, quando la mente comincia a ripetere ossessiva «no, non succederà nulla di male; ora l’abisso si ritira e io rimetto i piedi a terra; verrà l’angelo a farmi da paracadute; dopo lo schianto mi rialzerò come se niente fosse stato».
Poi, nel bel mezzo di questo stato allusivamente depressivo che solo la rilettura integrale di Guerra e pace potrebbe risolvere, capita che il feed di un blog ti restituisca questa frase:
morte e vita sono una rosa sola
Un frammento poetico incastonato in una prosa diaristica, un verso isolato e segnato dall’ipotesi, non so quanto fondata, di dovere l’esistenza a un refuso, a quel rosa che il senso comune esigerebbe essere cosa.
La lettura serve a qualcosa? Serve, serve, a patto di non vanificare la riposta positiva con una teoria di inutili perché e percome.