Raccontami la tua quarantena

April 12th, 2020

Hello World, come si diceva una volta. Questo è un post aperto.

Chi ha voglia di raccontare la sua quarantena da coronavirus, e non ha voglia di farlo in luoghi affollati come i socialcosi, può farlo scrivendo un commento in questo luogo appartato e silenzioso.

Se possibile, lasciate perdere invettive contro politici, governanti e simili, ma raccontate quello che fate o non fate, che vi piace o non vi piace, che soffrite o non soffrite, che desiderate o non desiderate (eccetera, eccetera) in questa situazione di reclusione involontaria.

E se conoscete qualcuno che ha voglia di dire qualcosa in confidenza, invitatelo a farlo qui.

Grazie.

P.S.: un amico mi ha detto che non ha voglia di parlare di sé in luogo pubblico, per quanto deserto. Gli ho risposto che può tranquillamente inventare oppure scrivere in forma anonima usando un indirizzo email non valido (es: invalid@invalid.inv)

Invecchiare

February 1st, 2019

Oggi, grazie a una repentina illuminazione, ho scoperto che io, gli altri non lo so, ma io è da quando sono nato che sto invecchiando.

Una riflessione

January 15th, 2019

Qualche tempo fa, leggendo un articolo su un sito, mi era venuta in mente una raccomandazione dello scrittore russo Danil Charms, citata spesso dallo scrittore italiano Paolo Nori, che dice così:

Quando compri un uccello, guarda se ci sono i denti o se non ci sono. Se ci sono i denti, non è un uccello.

E visto che mi era venuta in mente volevo scriverla nei commenti, e ho provato a scriverla. Prova una volta, prova due, niente: il commento non veniva pubblicato. Per meglio dire: sembrava che uscisse, ma poi spariva: tornando sulla pagina dei commenti non c’era più. Allora, dato che le cose che non funzionano mi fanno scattare la sindrome di Bob Aggiustatutto, ho cercato di capire perché quel commento non usciva, e ho provato a scrivere un altro commento: “chi ha il pane non ha i denti e chi ha i denti non ha il pane”, ho scritto, e il commento è uscito senza problemi. Uno mi ha anche risposto “Sì, ma che c’entra?”, e aveva ragione, ma non divaghiamo.

Se i denti van bene, ho pensato, il problema sarà l’uccello, e allora ho riscritto la raccomandazione dello scrittore russo Danil Charms in questo modo:

Quando compri un u c c e l l o, guarda se ci sono i denti o se non ci sono. Se ci sono i denti, non è un u c c e l l o

Il commento è stato pubblicato e non è più sparito. Poi ho fatto un’altra prova, scrivendo due commenti separati. Il primo diceva “Quando compri un uccello, guarda se ci sono i denti o se non ci sono” e il secondo diceva “Se ci sono i denti, non è un uccello”. Nessun problema: entrambi i commenti sono stati pubblicati e non sono più spariti. A dire il vero un problema c’è stato, cioè che quello che prima mi aveva risposto “Sì, ma che c’entra?”, mi ha risposto “Sì, ma non c’è bisogno di scriverlo venti volte”, e aveva ragione, ma non divaghiamo.

Al termine delle indagini, come suol dirsi, quel che ho capito è che il commento intero non era stato pubblicato perché conteneva due volte la parola uccello. Qualcuno, in qualche punto della grande rete, aveva stabilito che una frase che contiene due volte la parola uccello non doveva essere pubblicata, va’ a sapere perché. O meglio, il perché si intuisce. Il censore dev’essere qualcuno che conosce l’italiano, se sa che la parola uccello ha un doppio senso osceno, ma dev’essere anche qualcuno che non sa distinguere se una parola è usata in senso proprio o figurato. Insomma un algoritmo non proprio sofisticatissimo, a voler essere gentili, oppure un essere umano non proprio sveglissimo.

L’episodio potrebbe suggerire profonde riflessioni sulla censura in rete, la bigotteria intrinseca della società contemporanea o la decadenza del mondo occidentale: magari un’altra volta. Però una riflessione mi è venuta in mente: se questo è l’andazzo, sai che casino per gli ornitologi.

Rien

January 13th, 2019

Secondo lo scrittore austriaco Stefan Zweig, il 14 luglio 1789 il re francese Luigi XVI scriveva nel suo diario una sola parola: rien, che in francese vuol dire niente. Considerando che quello era il giorno della presa della Bastiglia, mi sembra di poter dire che il re francese Luigi XVI forse quel giorno lì non era tutto a casa, come si dice dalle mie parti.

Quando ho letto questa notizia, che Stefan Zweig ha scritto 143 anni dopo i fatti, ho pensato che fra 143 anni un biografo (non necessariamente austriaco) potrebbe leggere cosa ha scritto il presidente francese Emmanuel Macron nel suo diario in tutti i sabati degli anni 2018 e 2019 in cui in Francia c’è stata una manifestazione dei gilet gialli, ammesso che Emmanuel Macron tenga un diario.

Poi ho pensato che fra 143 anni, capiti quel che deve capitare in Francia e non in Francia, io sarò comunque morto, e allora è meglio se vado avanti a leggere la biografia di Maria Antonietta che Stefan Zweig ha pubblicato nel 1932, che tra l’altro è un gran bel libro, secondo me.

Xenofobia

January 12th, 2019

Oggi mi hanno detto che in greco xenos è una parola ambigua, perché vuol dire sia straniero che ospite, e anche ospite, a pensarci bene, è una parola ambigua in italiano, perché indica una persona che ospita, ma anche una persona che è ospitata. Che in greco phobos, fobia, vuol dire paura, lo sapevo già, come lo sanno tutti.

Alla luce di tutto questo, come si dice, oggi ho scoperto di essere xenofobo, perché quando sono ospite in casa d’altri ho sempre paura di disturbare e ho l’impressione che la persona che mi ospita non sia contenta di ospitarmi, e così dopo un po’ mi vien voglia di andare via.

Accanto a questa mia xenofobia passiva, diciamo, cioè che riguarda il mio essere ospitato, ce n’è anche una attiva e così, quando c’è un ospite a casa mia, ho sempre l’impressione che si senta come mi sento io quando sono ospitato, e allora cerco di fargli capire che sono contento di ospitarlo, altrimenti, penso, dopo un po’ gli verrà voglia di andare via, e mi dispiacerebbe.

L’unica cosa che non so è se a chi mi ospita dispiace che a me dopo un po’ venga voglia di andare via. La prossima volta glielo chiedo.

Dibattito

October 14th, 2018

[Entrano il rappresentante del Partito dei Poveri (PdP) e il rappresentante del Partito dei Ricchi (PdR). Si siedono al tavolo al centro della scena, uno a destra, l’altro a sinistra. Sul lato lungo del tavolo, in mezzo ai due e rivolto al pubblico, il moderatore tace, girando la testa a destra e a sinistra a seconda di chi parla, come si fa guardando una partita di tennis. Inizia il dibattito].

PdP: Noi del Partito dei Poveri toglieremo qualcosa ai ricchi per darlo ai poveri. Solo così i poveri potranno essere meno poveri.

PdR: Noi del Partito dei Ricchi aumenteremo la ricchezza prodotta dal sistema. Solo così i poveri potranno essere più ricchi.

PdP: Voi del Partito dei Ricchi volete aumentare la ricchezza prodotta dal sistema per tenervela in tasca, come avete sempre fatto.

PdR: Voi del Partito dei Poveri volete solo mettere le mani in tasca ai ricchi, come avete sempre fatto. Ladri!

PdP: Ladri voi del Partito dei Ricchi, che togliete il pane ai poveri per arricchirvi. Pescecani!

PdR: Noi del Partito dei Ricchi vogliamo che tutti siano più ricchi. Idioti!

PdP: Noi del Partito dei Poveri vogliamo che tutti siano meno poveri. Dementi!

PdR: Più ricchi!

PdP: Meno poveri!

PdR: Più poveri ricchi!

PdP: Più ricchi poveri!

Moderatore: Stop!

PdR: […]

PdP: […]

Moderatore: Pubblicità!

Fine.

Atto unico

September 4th, 2018

Entra in scena uno con la faccia da slovacco e grida: Prima gli slovacchi! Poi entra uno con la faccia da circasso, si mette di fianco allo slovacco e grida: Prima i circassi! Poi entra uno con la faccia da francese, si mette di fianco al circasso e grida: Prima i francesi! Poi entra uno con la faccia da filippino, si mette di fianco al francese e grida: Prima i filippini! Poi entra uno con la faccia da peruviano, si mette di fianco al filippino e grida: Prima i peruviani!

Si dispongono in cerchio, e ciascuno appoggia le mani sulle spalle di chi ha davanti. Il peruviano gira la testa indietro e grida allo slovacco: Visto che sono prima di te? Lo slovacco gira la testa indietro e grida al circasso: Visto che sono prima di te? Il circasso gira la testa indietro e grida al francese: Visto che sono prima di te? Il francese gira la testa indietro e grida al filippino: Visto che sono prima di te? Il filippino gira la testa indietro e grida al peruviano: Visto che sono prima di te?

Il peruviano fa una faccia da peruviano perplesso e dice con tono marcatamente filosofico: Ma se tu che hai parlato per ultimo sei prima di me che ho parlato per primo, allora chi è il primo?

Si girano tutti verso il pubblico e dicono con voce tranquilla e gaia: Andiamo ben a farci una grigliata in spiaggia.

Escono in ordine sparso.

Fine.

Svezia

September 2nd, 2018

SveziaIn Svezia ci sono stato quasi per sbaglio una volta sola in cinquantasei anni, eppure ce l’ho sempre in testa, la Svezia, e tutte le volte che ci penso, penso che è quasi incredibile il numero di volte che per una ragione o per l’altra ho incrociato la Svezia in vita mia. A parte la regina Cristina, il premio Nobel, gli Abba e i mostri sacri della letteratura e del cinema, che quelli li conoscono tutti, c’è tutto un repertorio di ritagli personali che mi legano alla Svezia. L’unica volta che sono stato in Svezia ho preso un autobus da Copenaghen, che è in Danimarca, e sono andato a Malmö, che è in Svezia, passando sul famoso ponte Oresund, che se non sbaglio in danese si chiama Øresund e in svedese Öresund, e se ci ho preso è anche l’unica parola che so scrivere in danese e in svedese. Ma non divaghiamo.

A Malmö ci sono stato solo qualche ora, un dicembre di dodici anni fa, eppure mi ricordo un sacco di particolari, che per me che ho la memoria di un pesce rosso è già una cosa straordinaria, e questo avvalora l’ipotesi che fra me e la Svezia dev’esserci un legame strano, qualcosa di indecifrabile che fissa la Svezia nella mia testa molto meglio di quanto succeda per la Danimarca o, che so io, per la Repubblica Ceca o per il Portogallo.

A Malmö mi ricordo un grattacielo un po’ contorto progettato dal famoso architetto Calatrava, diceva la guida turistica che avevo comprato a Copenaghen, e mentre ero lì che guardavo quel grattacielo da lontano è passato un signore su una bici da corsa, che si è fermato quando gli ho chiesto delle indicazioni. Gentilissimo. Ma a parte la gentilezza mi ricordo che aveva le orecchie quasi viola, perché quel giorno a Malmö c’era un vento gelato che portava via, e nonostante il vento e il gelo lui non aveva rinunciato alla sua corsetta in bici, coi pantaloncini corti da ciclista e senza guanti. Roba da congelarsi le dita, per tacere delle orecchie.

Mi ricordo anche che c’era una concentrazione molto alta di negozi e atelier di arredamento, e forse anche una scuola di design, che però era chiusa. A pranzo sono stato in un ristorante dove ho mangiato dell’ottima carne alla griglia e mi ricordo perfino il bagno, che aveva la porta scorrevole e la luce automatica, che sono dettagli che non ricordo neanche nei posti dove vado abitualmente, per dire come mi si fissano in testa le cose della Svezia.

Poi mi ricordo che uno dei miei bambini aveva esaurito lo spazio sulla scheda di memoria della macchina fotografica, ed era un po’ triste perché non voleva cancellare le foto che aveva già fatto per farne delle altre. Allora abbiamo girato un po’, e alla fine abbiamo trovato un negozio che le vendeva. Un negozio minuscolo, un solo locale di non più di quattro metri per quattro, seminterrato e senza finestre, che tra scaffali e bancone era così pieno che ci potevano entrare al massimo due o tre persone per volta. E aveva anche un cartellino sulla porta con su scritto “Cash only”. Andiamo bene, ho pensato, perché in tasca avevo solo euro e corone danesi. Il commesso, gentilissimo anche lui come il ciclista assiderato, non parlava tanto bene l’inglese, ma ci siamo capiti benissimo lo stesso. Gli ho detto subito che non avevo corone svedesi, gli ho fatto vedere gli euro e le corone danesi, e lui ha detto “Ok”. Ha preso la macchina fotografica, ha provato la scheda nuova per controllare che funzionasse, ha calcolato il cambio fra corone danesi e svedesi, l’ho pagato e sono uscito con mio figlio tutto contento che aveva già ricominciato a scattare fotografie.

Qualche anno dopo, in Sicilia, ho incontrato un signore di Göteborg che era in vacanza con la moglie, e quel giorno era andato come me alle gole di Tiberio, che è un posto bellissimo, un fiume incanalato fra due pareti di roccia alte cinquanta metri dove si può anche fare il bagno nuotando in mezzo alle anguille. Quando gli ho raccontato del mio unico passaggio in Svezia, a Malmö, lui ha detto “Why Malmö?”, con un tono di voce e una faccia allegra che lasciavano capire benissimo il sottinteso, cioè che in Svezia secondo lui ci sono posti molto più belli di Malmö da vedere. Quando poi gli ho detto che sono andato a Malmö solo perché ero in Danimarca e ci potevo arrivare facilmente grazie al famoso ponte Oresund, con lo stesso tono di voce e la stessa faccia allegra ha detto “Why Denmark?”, con il chiaro sottinteso che secondo lui è molto meglio la Svezia della Danimarca per andarci in vacanza, e devo dire che quel suo umorismo con qualche venatura di irriverenza mi ha sorpreso, per via di un pregiudizio che avevo sui popoli nordici che, chissà perché, dovevano essere tutta gente molto seria, vagamente asociale e anche un po’ noiosa, per via di quegli inverni lunghi, freddi e con le giornate cortissime che li costringono a stare in casa. Son poi passati degli altri anni prima che mi capitasse di leggere in un libro che una cosa più belle della Svezia sono le giornate estive lunghissime, che stimolano la gente a restare fuori casa fino a tardi, e solo allora ho collegato le due cose, cioè che alle giornate cortissime d’inverno si alternano quelle lunghissime d’estate, e ho capito che il mio pregiudizio sul carattere dei popoli nordici era una cretinata.

E niente, proprio oggi ho letto che il 9 settembre in Svezia si vota, e anche lì sembra che ci siano dei problemi che assomigliano ai nostri, tra partiti tradizionali che perdono consenso, disordini, impoverimento e tensioni sociali, e mi è venuto da pensare che spero che quel ciclista con le orecchie viola, il negoziante cash only di Malmö e la coppia di Göteborg stiano tutti bene e che se hanno qualche problema possano superarlo presto, loro e tutti gli svedesi.

Famiglia e disabilità

June 22nd, 2018

Con il nuovo governo è arrivato il Ministero per la Famiglia e le Disabilità, che è l’inveramento governativo di un vecchio articolo di Giorgio Manganelli, uno che con la famiglia aveva un rapporto tutt’altro che idilliaco. La “famiglia che, per vivere, ti fornisce di laurea e di una certa quantità di demenza”, come scriveva in un altro articolo, era per lui una fucina di terrori e di delitti, quindi una fonte preziosa per la letteratura, che di delitti e di terrori si alimenta.

Sia chiaro, non ce l’ho col neo ministro Fontana: non mi sembra un bandito né un genio, quindi non credo che potrà fare molti danni. Mi interessa soltanto l’accostamento linguistico e culturale tra famiglia e disabilità che il nuovo ministero sancisce, un accostamento non privo di realismo: che tutte le famiglie siano un po’ disabili, ognuna a suo modo e misura, lo si sapeva da un pezzo.

Un paio di generazioni fa, Orwell, a proposito del matrimonio, scrisse: «Quando si trova un coniuge ammazzato, la prima persona inquisita è l’altro coniuge: questo la dice lunga su quel che la gente pensa del matrimonio».

I tempi corrono, ed oggi la situazione è più complessa. Tra gli inquisiti non c’è più solo l’altro coniuge, ma i figli. È bene accertare se fra costoro qualcuno sappia usare armi da fuoco, mazze ferrate, o abbia una modesta competenza in fatto di veleni. Se muore un bambinello in circostanze sospette, sarà bene vedere se reca tracce di ecchimosi, se era denutrito o genericamente detestato. Non invento nulla, e poi non ho neanche fantasia; l’handicappato ammazzato a bastonate in una famiglia numerosa non l’ho fabbricato io, e neppure i giornali. Coloro che hanno commesso il delitto non erano delinquenti; vivevano una misera vita, e sarebbero stati onesti, non avessero avuto famiglia.

[G.Manganelli, da un articolo su il «Corriere della Sera Illustrato», 2 agosto 1980, ora in Mammifero italiano, Adelphi 2007, pag. 47-48]

Virtù e fortuna cinquecento anni dopo il Principe

November 18th, 2017

Machiavelli Un lettore di Machiavelli intuisce facilmente che le parole virtù e fortuna avevano per lui un significato molto diverso da quello che hanno oggi. In estrema sintesi, la virtù era la capacità di organizzare le azioni per raggiungere un obbiettivo. La fortuna era ciò che accade al di fuori della volontà e delle azioni umane. Per noi, oggi, virtuoso è l’uomo che compie opere buone, il più delle volte intese come opere pie. Per Machiavelli virtuoso è l’uomo che compie opere assennate. Oggi intendiamo la fortuna come botta di culo, piacevole e inattesa sorpresa, come vincere alla lotteria. Machiavelli raffigurava la fortuna come un “fiume rovinoso, che quando ei si adira, allaga i piani, rovina gli arbori e gli edifici” (Il Principe, cap. XXV).

La virtù era invece l’argine che gli uomini possono costruire per impedire al fiume rovinoso di provocare rovine. Lo slittamento semantico è indice di un mutamento storico: negli ultimi cinquecento anni abbiamo perso la capacità di costruire argini, sostituendola con virtuosissime quanto inutili dichiarazioni di principio.

Un esempio che conosco per esperienza diretta. L’amministrazione comunale di Bologna, città che ancora oggi gode di un’immeritata fama di buon governo, si distingue per dichiarazioni di nobile contenuto ambientalista. Il sindaco di Bologna un anno fa annunciava giulivo di aver candidato Bologna a Capitale Green europea per il 2019. Peccato che alle dichiarazioni di intenti corrispondano azioni che vanno in direzione ostinata e contraria rispetto alla tutela dell’ambiente, che è appunto il tema del Green Capital Award. L’esempio più clamoroso è senz’altro l’intenzione di allargare l’asse autostradale e tangenziale che già oggi passa di fatto in mezzo alla città, avvelenando l’aria e i polmoni dei cittadini. Ma a questo si possono aggiungere altre chicche, come la costruzione di 9 nuovi supermercati nell’ultimo anno, l’intenzione di edificare 18 ettari ai Prati di Caprara, che è il più grande polmone verde della città, la prossima costruzione di 11 nuovi distributori di carburanti, e via di questo passo. Fortunatamente, a proposito di fortuna, la candidatura di Bologna a capitale green è stata scartata dalla giuria, segno che tutto sommato la virtù ancora alligna in qualche cuore umano.

Ma la cosa più notevole di questa politica oggettivamente dannosa sono le dichiarazioni di impotenza dell’amministrazione. A proposito dell’edificazione dei Prati di Caprara, la giustificazione è che “è prevista dal POC”, il piano operativo comunale, come se il POC fosse un’entità superna, un’Ananke, un esempio perfetto del rovinoso fiume della machiavelliana fortuna e non, come è, uno strumento di pianificazione urbanistica redatto proprio da quel Comune che lo invoca come destino ineludibile. Per l’allargamento della tangenziale e autostrada si rimanda alla procedura di VIA, la valutazione di impatto ambientale presso il ministero dell’Ambiente, come se il Comune non avesse e non avesse avuto voce in capitolo: da notare che il progetto parte da un accordo sottoscritto da Virginio Merola, che oltre che sindaco di Bologna è anche presidente della Città Metropolitana (ex provincia). Per gli 11 nuovi distributori e per i 9 nuovi supermercati si adduce l’ineluttabilità della famigerata direttiva Bolkenstein a tutela della libera concorrenza, come se il Comune non potesse opporsi a operazioni dementi come queste proprio in virtù di quel potere di pianificazione urbanistica, ovvero il POC invocato a scusante dell’altro scempio, che è appunto in capo ai comuni.

Mancando la virtù, si invoca la fortuna come causa della propria inettitudine.

Tema: descrivi alcune iniziative utili alla protezione dell’ambiente.
Svolgimento del sindaco di Bologna: allargare le autostrade, moltiplicare le automobili, tramutare 18 ettari di verde in palazzi, costruire tanti tanti supermercati.

Mancanza di visione, incapacità di adeguare i mezzi agli obbiettivi, incapacità, a monte, di darsi obbiettivi sensati, improvvisazione, arretratezza culturale, svicolamento penoso dall’assunzione di responsabilità. Questo è quel che resta della virtù politica dopo cinque secoli di storia. Che fare? Leggere Machiavelli, che altro, e grazie a lui ridere, deridere, irridere il rovinoso fiume della stupidità umana.

I demoni

November 16th, 2017

Dostoevskij

C’è uno un po’ svampito che vive da vent’anni a spese di una possidente vedova e incazzata; e una zoppa psicopatica che vive con un fratello sempre ubriaco che la mena; e una quarantenne che ha sposato il governatore della provincia per governare lei; c’è uno che non dorme mai: secondo lui al mondo va tutto benissimo, e si vuole suicidare.

Il figlio di quello un po’ svampito è cattivissimo e nichilista; il figlio della vedova incazzata, invece, ha sposato la zoppa psicopatica perché era un po’ annoiato. Poi fa un duello sparando in aria e va a trovare della gente di notte;

Poi c’è uno che è contentissimo quando torna sua moglie che non vede da tre anni, ed è incinta; e una levatrice che domina un marito che fa fatica a capire cosa succede a casa sua, figuriamoci al mondo. Però vorrebbe cambiare il mondo.

C’è un santone che a seconda di come gli gira dà o rifiuta tè e zucchero ai devoti; c’è una signorina che porta a spasso il fidanzato come se fosse un barboncino; e questo fidanzato è felicissimo di fare il barboncino, anche se sa che lei è innamorata di quello annoiato che fa i duelli sparando in aria.

C’è uno che suona il piano e ha delle crisi isteriche da paura; un’altra si innamora di quello annoiato che va a trovare la gente di notte, anche se è sposato con la zoppa psicopatica, però lui è innamorato di quella col barboncino; e c’è anche una studentessa che vorrebbe parlare della questione femminile, ma non ci riesce mai.

Poi ci sono degli operai, un bandito, una venditrice di bibbie, dei contadini e una mucca.

Alla fine muoiono quasi tutti, tranne quello cattivissimo, la vedova incazzata, la mucca e pochi altri. Che detta così può sembrare un romanzo d’appendice da due soldi, invece per me è un romanzo bellissimo, comico e tragico.

Remember, remember fifteenth of november

November 16th, 2017

Il 15 novembre, negli ultimi cinquantacinque anni, mi sono capitate tre cose rilevanti: sono nato, è morto mio padre, mia madre ha subito un’operazione al cuore.

Le concomitanze di calendario sono cibo ghiotto per l’immaginazione, che è la madre delle pseudo scienze: l’astrologia è un sistema fondato interamente sull’ipotesi che nascere in un determinato periodo di tempo determini il carattere e la fortuna di un essere umano. L’immaginazione porta a credere che cose rilevanti accadute nello stesso giorno dello stesso mese siano qualcosa di più di una coincidenza: deve significare qualcosa. Quasi mai, però, l’immaginazione riesce a stabilire cosa diavolo dovrebbe significare, e questo è un po’ frustrante, perché poi la concomitanza resta lì, con tutto il potere simbolico delle analogie: il 15 novembre sei nato, così come tuo padre è morto, così come tua madre è stata operata al cuore, dice insidiosa la vocina interiore, calcando la mano sulle similitudini.

I due gesti che il mio psicoterapeuta ripeteva più spesso erano portare due dita alla fronte e la mano aperta sul petto. Le parole che accompagnavano i gesti garantivano che la testa, la mia, funzionava fin troppo bene, e che se proprio doveva esserci un problema non era lì, ma là, dove la mano aperta indicava il cuore, cioè la sede arcana dei sentimenti e delle emozioni.

Un razionalista con l’emotività di un paramecio non funziona benissimo, proprio come un sentimentale con la razionalità di un’ameba. Il grande segreto della vita sta tutto nel cercare (non nel trovare) l’equilibrio tra ragione e sentimento. Purtroppo non esiste psicoterapeuta al mondo che possa spiegare come svelare quel segreto, se non è un ciarlatano.

Io resto qui a domandarmi cosa c’entra con me il fatto che mio padre è morto il giorno in cui sono nato, che è lo stesso giorno in cui mia madre è stata operata al cuore. Resto qui a non capire se significa qualcosa, che non è una ragione sufficiente per smettere di chiedermelo. E come me, ho le prove, ci sono decine di persone che si chiedono cose simili senza trovare risposte, forse perché non è possibile rispondere a domande del genere.

Questo è un racconto. Ci sono cose intime che vale la pena raccontare. Le cose che vale la pena raccontare non sono quelle soddisfano il desiderio di essere amati, ma quelle che soddisfano il desiderio di amare. Non ci sono mai riuscito, ma continuo a provarci.

Realtà e finzione

November 14th, 2017

Realtà e finzione

Cose che succedono.

In una serie televisiva compare un numero di telefono scritto su un bigliettino. La serie televisiva si intitola Rosy Abate e ha come argomento la mafia – un genere che fa tanta audience, par di capire. Il numero di telefono ha un problema: è vero, cioè è il numero di cellulare di un trentottenne che vive a Domodossola. Il malcapitato riceve decine di telefonate per niente fittizie a quel numero.

Sembra una bufala, vero?

Sì, oppure la trovata di un genio, per così dire, del marketing. Però gli esperti di bufale affermano di aver fatto controlli e la classificano come notizia vera. Mi fido, e tutto sommato, ai fini di questo post, che la notizia sia vera o falsa è quasi irrilevante. Se non fosse vera, sarebbe almeno verosimile. C’è infatti almeno un caso celeberrimo in cui è successo qualcosa di simile: La guerra dei mondi di Orson Welles, uno sceneggiato radiofonico che nel 1938 scatenò una concretissima psicosi collettiva, frutto della confusione fra realtà e finzione.

Ad ogni modo, l’ignaro titolare del numero di telefono comparso in televisione ha ricevuto fino a notte inoltrata decine di telefonate di persone poco sensibili al carattere finzionale della serie TV. Questo è il racconto della moglie:

Abbiamo fatto fatica a capire cosa capitasse – racconta – Non abbiamo nemmeno visto quella fiction. Eravamo a cena al McDonald quando abbiamo iniziato a ricevere le telefonate. Ci hanno chiesto se fossimo parenti di Rosy Abate, qualcuno ci dà dei mafiosi e c’è chi ci ha perfino minacciato. Alcuni chiedevano se fossimo della produzione e li potessimo raccomandare. In molti chiamavano con numeri privati e poi, una volta risposto, mettevano giù la chiamata. Uno mi ha addirittura suggerito di rivolgermi alla produzione di Mediaset. Ma a farmi davvero paura è stato un uomo, a notte fonda, che mi ha detto: “Rosy Abate, non mi fai paura. Io ti ammazzo”.

Almeno qualche decina di persone ha scambiato la finzione per realtà, e si è attaccata al telefono convinta di contattare davvero Rosy Abate, o qualche suo parente, dimenticando che Rosy Abate è il personaggio di una fiction televisiva. È come se qualche lettore delle avventure di Sherlock Holmes nel 1887 avesse preso carta e penna per indirizzare al 221B di Baker Street, Londra, una lettera al detective. In quel caso, però, la lettera sarebbe tornata indietro, perché all’epoca il numero 221B di Baker Street non esisteva. Purtroppo per il signore di Domodossola gli sceneggiatori della serie TV sono stati meno accorti di sir Arthur Conan Doyle, ma non è questo il punto.

La notizia è che nel 2017 (non nel 1887 o nel 1938), dopo un secolo di comunicazione di massa a suon di radio, televisione e internet, è ancora possibile che qualcuno scambi per realtà una narrazione fittizia. All’ordinaria sospensione dell’incredulità si sostituisce il trionfo della credulità. E per una volta non si tratta delle ormai celebri fake news. Una notizia falsa per funzionare deve presentarsi come vera, mentre qui si tratta di un prodotto televisivo che già nel nome, fiction, si dichiara espressamente falso, inventato, fittizio. Un cartello segnaletico chiaro e inequivocabile, che però a quanto pare non è sufficiente.

Forse questa storia ha una morale, forse è l’indizio di pericolose derive culturali o psicologiche, ma preferisco fermarmi alla semplice contemplazione. Me ne sto fermo a bocca aperta a pensare: “ma davvero succedono cose così”? La cosa ha un effetto straniante, mi procura una piacevole sensazione di stupore fanciullesco, ed è l’ennesima conferma che la specie umana è una macchina narrativa straordinaria, non solo per le storie che sa inventare e scrivere, ma soprattutto per quello che fa tutti i giorni.

La verità

November 13th, 2017

— Che cos’è la verità?
— La verità anzitutto è che ti fa male la testa.

(dialogo fra Ponzio Pilato e Jeshua Ha-Nozri, Michail Bulgakov, Il Maestro e Margherita, cap. II, traduzione di Vera Dridso)

Quando si dice letteratura 2

November 11th, 2017

Ho copiato testi di circa 5.000 caratteri in un editor di testi, per contare le parole. I testi sono di vario genere: articoli di giornale, post di blog, parti di libri disponibili in rete, ecc. In un testo di 5.000 battute (spazi compresi) ho trovato in media 750 parole. Poi ho letto alcuni di questi testi ad alta voce, cronometro alla mano. Per leggere un testo di 5.000 caratteri impiego in media 5 minuti. Questo significa che, leggendo un testo ad alta voce, posso pronunciare circa 150 parole al minuto, ovvero 9.000 parole all’ora.

Va da sé che leggere un testo ad alta voce non equivale esattamente a parlare: la lettura è un processo lineare e continuo, mentre una conversazione è un processo complesso, ricco di sovrapposizioni, interferenze esterne, interruzioni, ecc. E poi le parole dette non hanno necessariamente la stessa durata delle parole lette: in una conversazione un “insomma”, può diventare “insooommaaaaaa”, e così via.

Diciamo comunque che, empiricamente, un italiano, parlando a voce alta, può pronunciare circa 9.000 parole all’ora. Ipotizziamo, sempre empiricamente, che ogni italiano parli con altre persone in media un’ora al giorno, tenendo conto che di notte non si fa conversazione, che i neonati non parlano, che una persona che vive da sola parla meno di una che convive con altri, che chi ha molte interazioni sociali scambia più parole di chi ne ha poche, eccetera.

Con queste ipotesi di partenza possiamo dire che sessanta milioni di italiani producono conversazioni per circa 540 miliardi di parole al giorno, equivalenti a 3.600 miliardi di caratteri a stampa. Considerando che una cartella editoriale contiene 1.800 caratteri, per trascrivere i discorsi italiani di una giornata servirebbero 2 miliardi di cartelle editoriali. Ipotizzando infine che la cartella editoriale corrisponda esattamente alla pagina di un libro stampato, e che un libro abbia in media 400 pagine, una giornata di discorsi italiani equivarrebbe a 5 milioni, e un anno a poco più di 1,8 miliardi di libri.

Secondo il rapporto AIE 2017, in Italia nel 2016 sono stati pubblicati circa 66.000 nuovi titoli.

Ne consegue che la letteratura, qualunque cosa sia, è una frazione insignificante di ciò che viene prodotto quotidianamente nella stessa lingua conversando. Applicando la definizione più estesa possibile fra quelle elencate nel post precedente, cioè che la letteratura è qualcosa di scritto, i libri stampati in un anno, se non ho sbagliato i conti, contengono lo 0,0037% delle parole che gli italiani si scambiano a voce nello stesso periodo di tempo. Per dirla in un altro modo, per ogni milione di parole pronunciate, ne vengono stampate trentasette. Per dirla in un altro modo ancora, leggere un libro, sui sessantaseimila prodotti ogni anno, significa leggere 0,56 miliardesimi di quello che gli italiani si dicono parlando tra di loro. Leggendo 100 libri all’anno si accede a un numero di parole pari a 56 miliardesimi di “quello che si dice in giro”.

La parola detta domina sulla parola scritta. Ne consegue, credo, che l’uso verbale del linguaggio lo determina, lo trasforma, lo fa evolvere molto più dell’uso scritto. Se la parola ha qualche potere, questo potere viene esercitato parlando più che scrivendo. Un’ora di chiacchiere da movida ha più potere di migliaia di libri. La marginalità della letteratura, qualunque cosa sia, la sua acclarata incapacità di “cambiare il mondo” è nei fatti prima che nelle interpretazioni, nella teoria e nelle lamentazioni dei nostalgici del bel tempo andato, quando la letteratura sì che contava.

La letteratura è quasi invisibile, insignificante, rara, leggera. È bene trattarla con leggerezza.