Archive for the ‘tempi moderni’ Category

Pensa te cosa succede

Tuesday, January 5th, 2010

Quando ho letto che per Renato Brunetta “l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” — cioè l’incipit della Costituzione italiana — non significa alcunché, mi è subito venuto in mente Corrado, il presentatore televisivo, quando disse che “l’Italia è una repubblica democratica fondata sulle cambiali”, e si beccò un cazziatone dalla direzione della Rai. Quella lì, pensavo, è l’unica battuta memorabile di Corrado, che per il resto faceva ridere per un certo suo modo di muoversi, per certi suoi sguardi storditi e complici, più che per quello che diceva.

Mentre ero lì che pensavo a Corrado, ho pensato che Brunetta, invece, fa ridere per quello che dice, sì, ma di quel ridere denigratorio e un po’ cattivo che scatta quando si assiste a una gaffe o a un’asinata plateale, come quando D’Alema canna i congiuntivi, per capirci. In quelle occasioni scatta, la risata, non tanto per l’asinata in sé, quanto per il contrasto fra l’asinata e la posa intellettualistica e vagamente professorale del personaggio.

Alla fine mi sono ritrovato a immaginare un quiz televisivo sulla Costituzione italiana condotto da Corrado, con Brunetta e D’Alema come concorrenti. Corrado domandava “cosa significa il primo comma dell’articolo 1 della Costituzione?”. D’Alema schiacciava il pulsante e diceva “credo che vuole dire che se non c’erano stati i lavoratori…”, poi Brunetta schiacciava il pulsante e diceva “ma che cazzo vorrà mai dire? Sarà una delle solite stronzate dei comunisti”. Allora Corrado allargava le braccia e faceva quel suo sguardo stordito e complice, e quello sguardo — tutti gli spettatori lo sapevano — significava “in due non ne fanno uno buono” e allora ridevano tutti, gli spettatori.

Pensa te cosa succede al cittadino comune quando Brunetta apre bocca, per tacere di D’Alema.

Gianni Rodari in mp3

Sunday, January 3rd, 2010

In rete c’è un signore che non solo si è preso la briga di trasferire l’opera in effigie da cassetta a file mp3, ma l’ha pure messa a disposizione di noi mortali con tanto di copertina originale. Sempre gli siano favorevoli i numi della salute e della fortuna.

Tutti i dettagli dell’operazione nel blog del benemerito distributore di chicche.

(notizia appresa da Pensieri spettinati, via cutulisci e dottorcarlo).

Dieci domande per un nuovo decennio

Thursday, December 31st, 2009

Un nuovo decennio incombe e la domanda aleggia: cosa resterà degli anni zero del ventunesimo secolo? La paura ingiustificata per il millenium bug? Il crollo delle Twin Towers? Le guerre più o meno telegeniche? Lo tsunami? Il terremoto di Bam? Quello dell’Aquila? Il boom economico di Cina e India? L’iPod? La Wii? Il primo presidente nero degli USA? Le scarpe lanciate contro Bush? Il duomo di Milano contro Berlusconi? Il global warming? La morte di Pavarotti? La sopravvivenza di Andreotti? La dipartita di Michael Jackson? I blog? I social network? Le poesie di Sandro Bondi?

Mah, boh, chi può dirlo.

Quel che resta, come tutti sanno, non dipende da ciò che è stato, ma da ciò che sarà: ricorderemo di questi anni le cose che tra dieci, venti o cent’anni i casi della vita e lo stato dell’umano genere renderanno di volta in volta degne di memoria. Porsi adesso la fatidica domanda è un esercizio non privo di stoltezza, diciamo pure un atto di demenza cosciente, un po’ come gli oroscopi.

Meglio comparare che divinare. Cinquant’anni fa, da queste parti, la simpatica specie di scimmie autocoscienti a cui appartengo era certamente messa peggio di oggi: c’era a mala pena il telefono, figuriamoci il cellulare. Non c’erano personal computer, non c’era internet e i pannelli fotovoltaici erano esperimenti spaziali. L’istruzione era un privilegio di pochi, la mentalità era chiusa e bigotta, la circolazione delle idee e delle persone era limitata.

E però dubito che il 31 dicembre 1959 qualcuno si chiedesse cosa sarebbe restato di quegli anni cinquanta. Ci si chiedeva casomai come sarebbero stati i dieci anni successivi. Domanda non meno stupida dell’altra, beninteso, ma che almeno indica un ottimismo di fondo, la voglia di guardare avanti, una discreta dose di fiducia nel futuro.

Per esempio, l’Unità del primo gennaio 1960 pubblicava dieci domande rivolte a un campione rappresentativo di cittadini sovietici. (Diversamente dalle famose dieci domande di Repubblica a Berlusconi, nella stessa pagina erano pubblicate anche le risposte, che però, va detto, han tutta l’aria di essere inventate di sana pianta). Eccole:

1) Cosa intendete con la parola comunismo?
2) Pensate che nei prossimi 10 anni avremo la pace o la guerra?
3) Cosa pensate di Stalin?
4) Cosa pensate di Krusciov?
5) Oggi in URSS si sta meglio che nel passato?
6) Pensate che l’URSS raggiunga l’America nel 1970?
7) Avete mai conosciuto americani?
8) Cosa vi manca e vorreste ottenere subito?
9) Che ne pensate della religione?
10) Che cosa intendete per cultura?

Lascio queste domande di cinquant’anni fa a tutti i lettori di passaggio assieme agli auguri di un ottimo 2010 e di sfolgoranti anni dieci.

Il nuovo gioco di zop

Tuesday, December 22nd, 2009

Dopo sette anni di onorato blogging e di innumerevoli ludi letterari, zop lancia il primo gioCOCOnCOrso in rete: VITE DA PRECARI tra creatività e follia. Per partecipare bisogna inviare a zop un racconto sul tema del precariato entro il 17 gennaio 2010, tenendo a mente che Saranno privilegiati i racconti ironici, fantasiosi e assurdi (astenersi componimenti patetici).

Tutte le istruzioni e i termini del gioco sono disponibili sul blog di zop che, come da tradizione, ti aspetta numeroso.

Oggi, quando ero giovane

Monday, December 21st, 2009

Oggi, alle due del pomeriggio, il termometro segnava otto gradi sotto zero. La minima di questa notte è stata meno tredici. Sabato mattina nel cortile di casa mia, che si trova a quindici metri sul livello del mare, c’erano quarantadue centimetri di neve. Finalmente un principio d’inverno come si deve, dopo anni e anni trascorsi quasi senza vedere un solo fiocco fioccare in pianura.

Quando ero giovane, se mai lo sono stato, passavo il capodanno in una casetta sull’appennino bolognese, a mille metri d’altitudine. Vicino a casa c’era un laghetto artificiale che in quel periodo dell’anno gelava. Ho ancora delle foto da qualche parte, dove si vede l’allegra brigata che gioca a pallone sul ghiaccio: la mia futura moglie, io, tre o quattro amici. Allora, metà anni ottanta del secolo scorso, c’era ancora il muro di Berlino e per mettere paura alla gente non si minacciava il global warming, ma la guerra atomica (chissà se chi è giovane adesso ha mai sentito parlare di euromissili).

Oggi cade il solstizio d’inverno, la notte più lunga, il giorno in cui gli antichi celebravano la festa del sole invitto per ricordarsi che sì, era vero che quel giorno lì iniziava l’inverno, la stagione più dura dell’anno, ma era anche vero che da lì in poi il sole avrebbe ricominciato a sopravanzare la tenebra, stendendo sui campi innevati un fausto presagio di primavera. Noi moderni non ci facciamo più tanto caso a questa faccenda delle giornate che riprendono ad allungarsi, perché a differenza degli antichi abbiamo l’illusione di dipendere meno dalla cruda natura e di poterci prendere il lusso di fottercene un po’ delle stagioni, perché tanto d’inverno ci sono i caloriferi e d’estate i condizionatori. Secondo me erano più saggi di noi, gli antichi, ma meno fortunati.

Quando ero giovane, negli stessi anni in cui trascorrevo il capodanno in montagna, d’estate andavo al mare all’Isola d’Elba, tra la metà di luglio e la metà di agosto. Là c’era un signore, il padre di un mio amico, che si divertiva a ripetere quasi ogni giorno una frase di dubbia sintassi: “non siamo neanche in estate che siamo già in inverno un’altra volta”. Il significato era più o meno questo: ma tu guarda, l’estate è iniziata da poco e già le giornate si accorciano, annunciando a noi mortali che la terra continua a girare intorno al sole verso l’inverno prossimo venturo. In quegli anni l’alternarsi delle stagioni era ancora un argomento di conversazione. In quegli anni esistevano ancora le conversazioni.

Oggi non siamo neanche in inverno che siamo già in estate un’altra volta.

Il maestro di Cremona

Wednesday, December 16th, 2009

Leggo che in una scuola di Cremona hanno deciso di rinominare il Natale. Cito:

Il maestro che ha preso la decisione non ha ripensamenti o dubbi: ci sono molti bambini di fede e nazionalità diverse, si rischiava di urtare la loro sensibilità. La nascita di Gesù si chiamerà «Festa delle luci».

Sono sbalordito dalla scorrettezza politica di questo maestro. E dire che bastava una piccola ricerca in google per capire quanto sia infelice la scelta di questo nome.

Se l’avesse fatta, avrebbe appreso che “Chanukkà o Hanukkah (in ebraico חנכה, ḥănukkāh) è una festività ebraica, conosciuta anche con il nome di Festa delle Luci“, e che Festa delle luci è anche la traduzione di Diwali, un’importante festa induista. Si sarebbe subito reso conto, il maestro di Cremona, che il passaggio del Natale dal cristianesimo all’ebraismo o all’induismo non risolve il problema di non urtare la sensibilità di bambini scintoisti, animisti, musulmani, bahai, agnostici, politeisti e fedeli del Grande Cocomero.

E non basta. La ricerca rivela che a Lione la Festa delle luci è uno degli eventi più attesi dell’anno. Questo nome mette quindi a dura prova anche la sensibilità di eventuali scolari lionesi, per tacere della sensibilità di quelli provenienti da città francesi che con Lione potrebbero avere vecchie ruggini o questioni di campanile.

Davvero non ci sono parole per definire la mancanza di tatto di quel maestro di Cremona.

L’incubo

Monday, December 14th, 2009

Johann Heinrich Füssli, The nightmare (1781) tratto da http://en.wikipedia.org/wiki/File:John_Henry_Fuseli_-_The_Nightmare.JPG
 
Una volta chiamai Giorgio Manganelli sbobinatore di incubi, e un amico rispose che poteva anche andare bene, sbobinare gli incubi, però non i propri, come sembra appunto accadere nel Manganelli narratore, ma quelli degli altri.

Questa notte ho avuto un incubo, una cosa che mi capita rarissimamente, per non dire mai. Altro fatto inconsueto per me, che di solito non rammento a sera quel che ho fatto a mezzogiorno, è che al risveglio ricordavo tutta intera la trama, per così dire, dell’incubo, nonché numerose scene e non pochi particolari.

Lì per lì ho pensato che avrei potuto sbobinarlo, l’incubo, in modo da lasciare ai posteri — e soprattutto al postero di me stesso che io sarò fra qualche anno — una traccia scritta di questo accadimento così raro e strano. Subito dopo, però, mi è tornata in mente la risposta dell’amico e l’ho immediatamente tradotta in avvertimento, segnale, pannello luminoso con scritta a intermittenza: non azzardarti a farlo.

Aveva ragione, l’amico: trascrivere i propri incubi può andare bene, al limite, come strumento psicanalitico o come personalissimo rito apotropaico: dare corpo alle proprie paure per poterle riconoscere, vedere, toccare ed eventualmente prendere a mazzate fino a renderle innocue. Difficilmente la sbobinatura servirà a intercettare gli incubi altrui, che è un’ambizione molto più appropriata per la scrittura.

Se diamo ragione a Shakespeare quando diceva che siamo fatti della stessa materia dei sogni, se seguiamo Schopenhauer quando dubitava che esistesse un criterio sicuro per distinguere il sogno dalla realtà, allora dobbiamo credere che il modo migliore per scrivere di incubi universali e condivisi, sia quello di narrare la dura materia e la vita vissuta a occhi aperti.

L’unica cosa sensata che posso dire a proposito del mio incubo, adesso che sono sveglio, è che questa notte ho avuto un incubo e che al risveglio lo ricordavo tutto intero. Ai posteri, me incluso, basterà la notizia. La trama, le scene, i particolari e di quale angoscia esso incubo fosse araldo, queste son tutte cose degne di essere taciute.

Padri e figli

Saturday, December 5th, 2009


 
Io, quando ho letto la famigerata lettera di Pier Luigi Celli al figlio, me n’è venuta in mente un’altra, una lettera che Niccolò Machiavelli scrisse al figlio Guido il 2 aprile 1527. L’ultima, perché il Segretario fiorentino sarebbe morto il 22 giugno successivo. Trascrivo i primi due paragrafi, sufficienti a marcare la differenza fra il burocrate di cinquecento anni fa e quello odierno.

Guido figliuolo mio carissimo. Io ho avuto una tua lettera, la quale mi è stata gratissima, maxime perché tu mi scrivi che sei guarito bene, che non potrei havere havuto maggiore nuova; che se Iddio ti presta vita, et a me, io credo farti huomo da bene, quando tu vuogli fare parte del debito tuo; perché, oltre alle grandi amicitie che io ho, io ho fatto nuova amicitia con il cardinale Cibo et tanta grande, che io stesso me ne maraviglio, la quale ti tornerà a proposito; ma bisogna che tu impari, et poiché tu non hai più scusa del male, dura fatica in imparare le lettere et la musica, ché vedi quanto honore fa a me un poco di virtù che io ho; sì che, figliuolo mio, se tu vuoi dare contento a me, et fare bene et honore a te, studia, fa bene, impara, ché se tu ti aiuterai, ciascuno ti aiuterà.

El mulettino, poiché gli è impazato, si vuole trattarlo al contrario degli altri pazzi: perché gli altri pazzi si legano, et io voglio che tu lo sciolga. Daràlo ad Vangelo, et dirai che lo meni in Montepugliano, et dipoi gli cavi la briglia et il capestro, et lascilo andare dove vuole ad guadagnarsi il vivere et ad cavarsi la pazzia. Il paese è largo, la bestia è piccola, non può fare male veruno; et così sanza haverne briga, si vedrà quello che vuol fare, et sarai a tempo ogni volta che rinsavisca a ripigliallo.

Nel primo paragrafo Machiavelli dice senza ipocrisia che, quando verrà il momento, sfrutterà la sua rete di relazioni per aiutare il figlio a fare carriera, cosa che Celli non ammetterebbe nemmeno sotto tortura. E però aggiunge: studia, fa bene, impara. In altre parole, laddove il Celli scioccamente ravvisa una palingenesi nell’espatrio, il Machiavelli avvisa il figlio che in mancanza di studio e applicazione resterà una capra ovunque egli vada.

Il secondo paragrafo è un capolavoro. Ma davvero, neh, mica per scherzo. È la prosecuzione per metafora di quello studia, fa bene, impara.

I figli, proprio come i puledri, a una certa età impazziscono: vogliono prendere strade inconsuete, fare di testa loro, sfidare il mondo. Ci sono padri come Celli che impongono ai figli impazati la briglia e il capestro dei propri pregiudizi: fai questo, fai quello, vai all’estero, da’ retta a me che sono uomo di mondo. Ci sono padri come Machiavelli che li lasciano andare dove vogliono a guadagnarsi il vivere, sperando che rinsaviscano.

Come figlio ho già dato, non posso tornare indietro. Come padre spero in un destino simile a quello di Niccolò Machiavelli: sparire da questo mondo molto prima di cedere alla tentazione di imporre briglia e capestro ai miei figli, quando impazziranno.

C’era una volta l’Unità

Thursday, December 3rd, 2009

archivio.unita.it
 
(l’Unità, un titolo del 15 novembre 1962)

A causa della mia lentezza, apprendo solo ora che l’Unità ha digitalizzato tutte le annate. L’archivio storico è disponibile qui, e a colpo d’occhio mi sembra che funzioni piuttosto bene.

Merita un’occhiata il primo numero del 12 febbraio 1924. Costava venti centesimi (di lire, neh) per quattro pagine ed era sottotitolato Quotidiano degli operai e dei contadini, ma già il 12 agosto 1924 sarebbe diventato Organo del partito comunista d’Italia. In prima pagina spicca, in neretto, la dedica del primo numero alla memoria di Nicola Lenin, morto il 21 gennaio 1924.

La notizia del giorno era il riconoscimento della Russia sovietista da parte di Mussolini: La riammissione della Russia nel seno delle potenze europee avrà ripercussioni incalcolabili. La lotta di classe è combattuta oggi su un grande scacchiere e a corpo a corpo con le potenze capitalistiche. I nemici della Russia sono moltissimi. Solo l’appoggio diretto e indiretto dei proletari di tutti i paesi potrà aiutarla a vincere come finora l’ha aiutata a vivere. La lotta di classe! I proletari!

Naturalmente io sono subito andato a consultare il numero del giorno che segna l’inizio della mia unica e irripetibile vita sul pianeta Terra. Il sottotitolo della testata era Organo del partito comunista italiano, il prezzo era salito a 40 lire per dodici pagine.

In apertura si dava l’annuncio di Due giorni di lotte contadine, seguito dalla notizia di un violento temporale in territorio romano: A Prima Porta diecimila persone sono isolate nella campagna allagata dalle acque della marrana straripate per la diga di Castelgiubileo. Hanno trovato scampo sui tetti e nei piani superiori delle case. Ho dovuto consultare il vocabolario per scoprire cosa significa marrana: a Roma, fiumiciattolo o canale di scolo in cui le acque fluiscono lentamente, a cielo aperto. Da un altro titolo di prima pagina, Il compagno Togliatti a Bologna, scopro di essere nato sotto il segno della falce e martello.

A pagina 2 un trafiletto svelava Una proposta del PCI per la pensione dei minatori a 55 anni. I minatori! A pagina 7 c’erano i programmi del primo e del secondo canale della Rai TV, gli unici disponibili all’epoca, chiamati comunemente il primo e il secondo: una sola trasmissione mattutina, Telescuola, poi si riprendeva alle quattro e un quarto del pomeriggio sul primo e alle nove di sera sul secondo. Sul primo, alle 21,05 del giorno che udì il mio primo vagito, c’era la sesta puntata di Canzonissima, la penultima presentata da Dario Fo e Franca Rame prima di essere cacciati dalla Rai.

A pagina 11, pubblicità: Mal di testa? reumatismi mal di denti nevralgie? CACHET FIAT. Anche in supposte. Non fa male al cuore.

A pagina 6, dedicata alla cultura, una grande Novità della tecnica: il visore a raggi infrarossi. Che roba. Sono passati meno di cinquant’anni e sembrano secoli.

Realizzare

Friday, November 27th, 2009

Vorrei pregare gli scriventi italiani — blogger, giornalisti, scrittori, insegnanti e scolari, appuntati e altro personale verbalizzante, notai, addetti agli uffici stampa e tutti coloro che consegnano ai posteri parole scritte, per professione o per diletto, su carta o in rete — di fare un gesto semplice ma molto importante per la salvaguardia della nostra bella lingua (e dei miei nervi): rinunciare al verbo realizzare. Non è un gran bel verbo in generale, ma diventa insopportabile quando è usato a imitazione dell’inglese to realize, cioè come sinonimo di capire, rendersi conto. E se la mia preghiera non bastasse, ci aggiungo alcune considerazioni di Aldo Gabrielli.

Vedendo avanzare il plotone di esecuzione, Carletto realizzò capì che le cose si mettevano male.

Capire, rendersi conto, intuire, comprendere, immaginare, sentire, intendere, percepire, avvertire. Realizzare no, per favore.

Gli americani, quando parlano di affari (Believe in what you sell)

Wednesday, November 25th, 2009

L’altro giorno, assieme a un mio socio, ero al telefono con Jack, un americano che adesso abita in Australia, che ci aveva chiamato per raccontarci quanto gli sarebbe piaciuto che la nostra azienda distribuisse in Italia certi prodotti americani che la sua azienda già distribuisce in Australia, Gran Bretagna e Olanda.

Jack era seriamente intenzionato a presentare bene la mercanzia e rendere allettante l’offerta, e lo faceva con uno stile molto americano, dichiarandosi interessato, anzi, excited all’idea di unire le nostre forze per conquistare il mercato italiano. Chissà perché gli americani si eccitano a parlare di affari. Questa sfumatura erotica che danno al business mi ha sempre incuriosito.

Parla che ti parla (tanto la telefonata dall’Australia la pagava lui), dopo che Jack ci ha spiegato per bene le meraviglie dei suoi prodotti, cominciamo a fare noi qualche domanda di altissimo profilo, tipo quanto costa this stuff, quanto mercato ha, quale sarebbe la nostra percentuale, perché noi italiani, quando parliamo di affari, siamo molto meno erotici e più prosaici degli americani.

A sentirci così poco eccitati e così tanto interessati a vili dettagli pecuniari, Jack deve aver percepito da parte nostra un atteggiamento non dico ostile, perché il tono della conversazione è rimasto sempre amichevole e rilassato, ma di sicuro molto più prudente e pratico di quello che lui si aspettava (gli americani, quando parlano di affari, sembra sempre che ti stiano invitando in vacanza a spese loro, e si sorprendono tantissimo, quasi si offendono se tu non accetti subito le loro proposte con abbondanti wow! e cool!).

Allora, forse per riaccendere l’entusiasmo e strapparci qualche wow!, Jack ha calato l’asso, la frase che secondo lui doveva riassumere tutta la forza della proposta e contenere tutte le buone ragioni per accettarla senz’altro: I believe in what we sell, credo in quel che vendiamo. E meno male che non eravamo in videoconferenza, perché a vederci piegati in due dal ridere non credo che l’avrebbe presa molto bene e tutto sommato mi sarebbe dispiaciuto, perché Jack è un tipo simpatico, forse non esattamente cool, ma simpatico sì.

Quella frase non mi usciva più dalla testa. I believe in what we sell. L’ho cercata in google e ho scoperto che believe in what you sell è uno slogan usato da qualche guru della motivazione personale, naturalmente americano, quindi ho pensato che potrebbe essere in corso uno spostamento epocale dell’approccio americano agli affari, dal piano erotico a quello religioso. Sta’ a vedere che questi da excited mi diventano faithful o believer, quando parlano di affari.

Poi ho provato a immaginare cosa potrebbe succedere se questa deriva religiosa del commercio si diffondesse a livello planetario: salumieri devoti agli insaccati; ortolani che accendono ceri a un dio lattuga; processioni di sarti che intonano inni sacri al doppio petto; assicuratori che edificano cosmogonie in forma di polizza. Ci sono delle volte che anche a lavorare uno si diverte.

L’immigrazione è un’opportunità

Monday, November 23rd, 2009

tratto da http://www.tim.it
 
Alla faccia degli stronzi che la considerano una minaccia.

Due pensieri

Saturday, November 21st, 2009

tratto da http://en.wikipedia.org/wiki/File:Klee,_Angelus_novus.gifUno

C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta. [W.Benjamin, Tesi di filosofia della storia (1940), in Angelus Novus, Einaudi 1962, trad. Renato Solmi, pag. 80]

***

Due

Poi finalmente ho messo le mani su I detective selvaggi e leggendo dei poeti realvisceralisti (chiedetemi se amo Bolaño)

[…] Secondo lui, gli attuali realvisceralisti camminavano all’indietro. Come all’indietro? domandai.
— Di spalle, guardando un punto ma allontanandosene, in linea retta verso l’ignoto.

mi sono detta che evidentemente faccio parte della cricca. Con l’unica differenza che a me da ormai troppo tempo sembra di avere una pistola puntata contro. Forse di quando in quando alzo anche le mani. [Fragments of wishdom, 9 novembre 2009]

***

L’accostamento di questi due pensieri restituisce un’immagine piuttosto precisa dell’andamento declinante della nostra beneamata civiltà. Già il punto di vista di Benjamin non era propriamente ottimista: scaraventati verso un futuro incerto senza riuscire a distogliere lo sguardo dalle macerie del passato. Ma almeno il movimento era in avanti, e poi gli angeli volano e sono immortali.

Oggi, con i piedi ben piantati a terra e lo sguardo rivolto a un futuro parimente incerto, retrocediamo verso un passato che non conosciamo con precisione, ma di cui conserviamo vaghi ricordi inquietanti, ricordi di catastrofi e cumuli di macerie. E non siamo angeli, non siamo immortali, sappiamo che quella pistola puntata contro di noi può farci molto male. Alziamo le mani e teniamo aperte quelle, in mancanza di ali.

(disclaimer: questo non è un post triste)

Del bue

Monday, November 16th, 2009

Questo articolo di Repubblica parla di conti bancari berlusconiani nella filiale milanese di una banca svizzera. Quello riportato in figura è l’elenco degli articoli correlati, che immagino sia creato automaticamente in base alla ricorrenza nei diversi testi di parole simili.

Il primo della lista — quindi, suppongo, quello più attinente alle vicende bancarie berlusconiane secondo l’algoritmo utilizzato — è questo, cioè un pezzo dedicato alla lenta ma inesorabile scomparsa del bue dal paesaggio campestre della provincia di Cuneo.

Orpo, dirà l’acuto lettore, ma che c’entra il bue delle Langhe con le banche svizzere e con la famiglia Berlusconi? Forse gli allevatori di Carrù versavano i guadagni della stalla in conti elvetici? Forse la banca in questione riciclava i proventi di sordidi abigeati? I Berlusconi sono appassionati di bollito piemontese?

Macché, niente di tutto questo. Il nesso insospettabile per le semplici menti umane, ma che non sfugge alla sofisticata abilità semantica degli algoritmi, è un altro: uno dei personaggi citati più volte nell’articolo bancario è un tal Del Bue

Toccherà fare ripetizioni di latino

Sunday, November 15th, 2009

Apprendo da Anelli di fumo, che lo apprende da D-Avanti, che una professoressa di latino di Trani ha dato ai suoi studenti il compito di tradurre questo brano:

Tribunal Italicus, cuius munus est de legum communium congruentia cum lege suprema iudicare, sollemniter constituit legem nomine ministri Alfano appellatam, qua quattuor summi magistratus ante iudices per totum mandatum deferri non possint, legi supremae incongruam esse. Quare Silvius Berlusconi, minister primarius Italorum, in ius vocabitur corruptelae, fraudis et adulterationis accusatus: qui se dixit minime magistratu se abdicaturum esse et iudices et rei publicae praesidentem accusavit, quod sinistrae parti faveant.

Il mio latino è molto arrugginito, ma a occhio e croce mi sembra un brano giornalistico che si limita a riportare una notizia senza esprimere giudizi politici sui fatti e sui protagonisti. Potrebbe essere benissimo la traduzione di un lancio di agenzia. Il testo è tratto da una rivista in rete chiamata Ephemeris, che nell’apposita sezione qui simus, non sembra davvero rivendicare scopi politici o antiberlusconiani.

Il latino dell’onorevole Gabriella Carlucci dev’essere ancora più arrugginito del mio, visto che pare abbia intenzione di chiedere “l’apertura di un’inchiesta sull’accaduto per verificare se vi siano gli estremi per richiami ufficiali e sanzioni disciplinari”. Carlucci è convinta che il fatto configuri un uso delle cattedre scolastiche “per fare propaganda politica e per dileggiare ed offendere il Presidente del Consiglio”.

Mah. Sta a vedere che, dopo il test anti-droga, ai parlamentari toccherà fare ripetizioni di latino.