Il maestro di Cremona

December 16th, 2009

Leggo che in una scuola di Cremona hanno deciso di rinominare il Natale. Cito:

Il maestro che ha preso la decisione non ha ripensamenti o dubbi: ci sono molti bambini di fede e nazionalità diverse, si rischiava di urtare la loro sensibilità. La nascita di Gesù si chiamerà «Festa delle luci».

Sono sbalordito dalla scorrettezza politica di questo maestro. E dire che bastava una piccola ricerca in google per capire quanto sia infelice la scelta di questo nome.

Se l’avesse fatta, avrebbe appreso che “Chanukkà o Hanukkah (in ebraico חנכה, ḥănukkāh) è una festività ebraica, conosciuta anche con il nome di Festa delle Luci“, e che Festa delle luci è anche la traduzione di Diwali, un’importante festa induista. Si sarebbe subito reso conto, il maestro di Cremona, che il passaggio del Natale dal cristianesimo all’ebraismo o all’induismo non risolve il problema di non urtare la sensibilità di bambini scintoisti, animisti, musulmani, bahai, agnostici, politeisti e fedeli del Grande Cocomero.

E non basta. La ricerca rivela che a Lione la Festa delle luci è uno degli eventi più attesi dell’anno. Questo nome mette quindi a dura prova anche la sensibilità di eventuali scolari lionesi, per tacere della sensibilità di quelli provenienti da città francesi che con Lione potrebbero avere vecchie ruggini o questioni di campanile.

Davvero non ci sono parole per definire la mancanza di tatto di quel maestro di Cremona.

L’incubo

December 14th, 2009

Johann Heinrich Füssli, The nightmare (1781) tratto da http://en.wikipedia.org/wiki/File:John_Henry_Fuseli_-_The_Nightmare.JPG
 
Una volta chiamai Giorgio Manganelli sbobinatore di incubi, e un amico rispose che poteva anche andare bene, sbobinare gli incubi, però non i propri, come sembra appunto accadere nel Manganelli narratore, ma quelli degli altri.

Questa notte ho avuto un incubo, una cosa che mi capita rarissimamente, per non dire mai. Altro fatto inconsueto per me, che di solito non rammento a sera quel che ho fatto a mezzogiorno, è che al risveglio ricordavo tutta intera la trama, per così dire, dell’incubo, nonché numerose scene e non pochi particolari.

Lì per lì ho pensato che avrei potuto sbobinarlo, l’incubo, in modo da lasciare ai posteri — e soprattutto al postero di me stesso che io sarò fra qualche anno — una traccia scritta di questo accadimento così raro e strano. Subito dopo, però, mi è tornata in mente la risposta dell’amico e l’ho immediatamente tradotta in avvertimento, segnale, pannello luminoso con scritta a intermittenza: non azzardarti a farlo.

Aveva ragione, l’amico: trascrivere i propri incubi può andare bene, al limite, come strumento psicanalitico o come personalissimo rito apotropaico: dare corpo alle proprie paure per poterle riconoscere, vedere, toccare ed eventualmente prendere a mazzate fino a renderle innocue. Difficilmente la sbobinatura servirà a intercettare gli incubi altrui, che è un’ambizione molto più appropriata per la scrittura.

Se diamo ragione a Shakespeare quando diceva che siamo fatti della stessa materia dei sogni, se seguiamo Schopenhauer quando dubitava che esistesse un criterio sicuro per distinguere il sogno dalla realtà, allora dobbiamo credere che il modo migliore per scrivere di incubi universali e condivisi, sia quello di narrare la dura materia e la vita vissuta a occhi aperti.

L’unica cosa sensata che posso dire a proposito del mio incubo, adesso che sono sveglio, è che questa notte ho avuto un incubo e che al risveglio lo ricordavo tutto intero. Ai posteri, me incluso, basterà la notizia. La trama, le scene, i particolari e di quale angoscia esso incubo fosse araldo, queste son tutte cose degne di essere taciute.

Una scrittura bella

December 11th, 2009

Talvolta capita, leggendo in giro, che il lettore scovi ponderose riflessioni e accesi dibattiti sui doveri dello scrittore: e chi dice che lo scrittore ci deve avere l’impegno civile; e chi dice che la scrittura deve cambiare il mondo; e chi dice che lo scrittore deve scrivere chiaro; e chi dice che deve scrivere scuro; e chi dice. Gli autori di queste ponderose riflessioni son il più delle volte persone che pubblicano libri: romanzi, poemi, saggi di critica letteraria.

Altre volte capita, leggendo in giro, che il medesimo lettore si imbatta in una scrittura bella, semplicemente bella, con uno stile miracolosamente commisurato al contenuto, un bel ritmo, una singolare capacità comunicativa. Una scrittura che dice, senza che nessuno le dica cosa dovrebbe dire. Una scrittura che è, senza preoccuparsi di come dovrebbe essere. Potrei sbagliare, ma scommetto che l’autrice di questo gioiellino non ha mai pubblicato un romanzo, un poema, un saggio di critica letteraria.

Quello volte lì, quando trova una scrittura bella, il lettore intuisce che chi scrive ha un dovere solo: scrivere bene.

Padri e figli

December 5th, 2009


 
Io, quando ho letto la famigerata lettera di Pier Luigi Celli al figlio, me n’è venuta in mente un’altra, una lettera che Niccolò Machiavelli scrisse al figlio Guido il 2 aprile 1527. L’ultima, perché il Segretario fiorentino sarebbe morto il 22 giugno successivo. Trascrivo i primi due paragrafi, sufficienti a marcare la differenza fra il burocrate di cinquecento anni fa e quello odierno.

Guido figliuolo mio carissimo. Io ho avuto una tua lettera, la quale mi è stata gratissima, maxime perché tu mi scrivi che sei guarito bene, che non potrei havere havuto maggiore nuova; che se Iddio ti presta vita, et a me, io credo farti huomo da bene, quando tu vuogli fare parte del debito tuo; perché, oltre alle grandi amicitie che io ho, io ho fatto nuova amicitia con il cardinale Cibo et tanta grande, che io stesso me ne maraviglio, la quale ti tornerà a proposito; ma bisogna che tu impari, et poiché tu non hai più scusa del male, dura fatica in imparare le lettere et la musica, ché vedi quanto honore fa a me un poco di virtù che io ho; sì che, figliuolo mio, se tu vuoi dare contento a me, et fare bene et honore a te, studia, fa bene, impara, ché se tu ti aiuterai, ciascuno ti aiuterà.

El mulettino, poiché gli è impazato, si vuole trattarlo al contrario degli altri pazzi: perché gli altri pazzi si legano, et io voglio che tu lo sciolga. Daràlo ad Vangelo, et dirai che lo meni in Montepugliano, et dipoi gli cavi la briglia et il capestro, et lascilo andare dove vuole ad guadagnarsi il vivere et ad cavarsi la pazzia. Il paese è largo, la bestia è piccola, non può fare male veruno; et così sanza haverne briga, si vedrà quello che vuol fare, et sarai a tempo ogni volta che rinsavisca a ripigliallo.

Nel primo paragrafo Machiavelli dice senza ipocrisia che, quando verrà il momento, sfrutterà la sua rete di relazioni per aiutare il figlio a fare carriera, cosa che Celli non ammetterebbe nemmeno sotto tortura. E però aggiunge: studia, fa bene, impara. In altre parole, laddove il Celli scioccamente ravvisa una palingenesi nell’espatrio, il Machiavelli avvisa il figlio che in mancanza di studio e applicazione resterà una capra ovunque egli vada.

Il secondo paragrafo è un capolavoro. Ma davvero, neh, mica per scherzo. È la prosecuzione per metafora di quello studia, fa bene, impara.

I figli, proprio come i puledri, a una certa età impazziscono: vogliono prendere strade inconsuete, fare di testa loro, sfidare il mondo. Ci sono padri come Celli che impongono ai figli impazati la briglia e il capestro dei propri pregiudizi: fai questo, fai quello, vai all’estero, da’ retta a me che sono uomo di mondo. Ci sono padri come Machiavelli che li lasciano andare dove vogliono a guadagnarsi il vivere, sperando che rinsaviscano.

Come figlio ho già dato, non posso tornare indietro. Come padre spero in un destino simile a quello di Niccolò Machiavelli: sparire da questo mondo molto prima di cedere alla tentazione di imporre briglia e capestro ai miei figli, quando impazziranno.

C’era una volta l’Unità

December 3rd, 2009

archivio.unita.it
 
(l’Unità, un titolo del 15 novembre 1962)

A causa della mia lentezza, apprendo solo ora che l’Unità ha digitalizzato tutte le annate. L’archivio storico è disponibile qui, e a colpo d’occhio mi sembra che funzioni piuttosto bene.

Merita un’occhiata il primo numero del 12 febbraio 1924. Costava venti centesimi (di lire, neh) per quattro pagine ed era sottotitolato Quotidiano degli operai e dei contadini, ma già il 12 agosto 1924 sarebbe diventato Organo del partito comunista d’Italia. In prima pagina spicca, in neretto, la dedica del primo numero alla memoria di Nicola Lenin, morto il 21 gennaio 1924.

La notizia del giorno era il riconoscimento della Russia sovietista da parte di Mussolini: La riammissione della Russia nel seno delle potenze europee avrà ripercussioni incalcolabili. La lotta di classe è combattuta oggi su un grande scacchiere e a corpo a corpo con le potenze capitalistiche. I nemici della Russia sono moltissimi. Solo l’appoggio diretto e indiretto dei proletari di tutti i paesi potrà aiutarla a vincere come finora l’ha aiutata a vivere. La lotta di classe! I proletari!

Naturalmente io sono subito andato a consultare il numero del giorno che segna l’inizio della mia unica e irripetibile vita sul pianeta Terra. Il sottotitolo della testata era Organo del partito comunista italiano, il prezzo era salito a 40 lire per dodici pagine.

In apertura si dava l’annuncio di Due giorni di lotte contadine, seguito dalla notizia di un violento temporale in territorio romano: A Prima Porta diecimila persone sono isolate nella campagna allagata dalle acque della marrana straripate per la diga di Castelgiubileo. Hanno trovato scampo sui tetti e nei piani superiori delle case. Ho dovuto consultare il vocabolario per scoprire cosa significa marrana: a Roma, fiumiciattolo o canale di scolo in cui le acque fluiscono lentamente, a cielo aperto. Da un altro titolo di prima pagina, Il compagno Togliatti a Bologna, scopro di essere nato sotto il segno della falce e martello.

A pagina 2 un trafiletto svelava Una proposta del PCI per la pensione dei minatori a 55 anni. I minatori! A pagina 7 c’erano i programmi del primo e del secondo canale della Rai TV, gli unici disponibili all’epoca, chiamati comunemente il primo e il secondo: una sola trasmissione mattutina, Telescuola, poi si riprendeva alle quattro e un quarto del pomeriggio sul primo e alle nove di sera sul secondo. Sul primo, alle 21,05 del giorno che udì il mio primo vagito, c’era la sesta puntata di Canzonissima, la penultima presentata da Dario Fo e Franca Rame prima di essere cacciati dalla Rai.

A pagina 11, pubblicità: Mal di testa? reumatismi mal di denti nevralgie? CACHET FIAT. Anche in supposte. Non fa male al cuore.

A pagina 6, dedicata alla cultura, una grande Novità della tecnica: il visore a raggi infrarossi. Che roba. Sono passati meno di cinquant’anni e sembrano secoli.

Auroralia

November 30th, 2009

tratto da www.uelsmann.net
 
50 racconti x 1 fotografia = Auroralia.

Da una fotografia di Jerry Uelsmann, a cura di Gaja Cenciarelli, Zona editore.

Un libro concepito in rete che sta per essere partorito in libreria. Poi non dite che non vi avevo avvisati.

Realizzare

November 27th, 2009

Vorrei pregare gli scriventi italiani — blogger, giornalisti, scrittori, insegnanti e scolari, appuntati e altro personale verbalizzante, notai, addetti agli uffici stampa e tutti coloro che consegnano ai posteri parole scritte, per professione o per diletto, su carta o in rete — di fare un gesto semplice ma molto importante per la salvaguardia della nostra bella lingua (e dei miei nervi): rinunciare al verbo realizzare. Non è un gran bel verbo in generale, ma diventa insopportabile quando è usato a imitazione dell’inglese to realize, cioè come sinonimo di capire, rendersi conto. E se la mia preghiera non bastasse, ci aggiungo alcune considerazioni di Aldo Gabrielli.

Vedendo avanzare il plotone di esecuzione, Carletto realizzò capì che le cose si mettevano male.

Capire, rendersi conto, intuire, comprendere, immaginare, sentire, intendere, percepire, avvertire. Realizzare no, per favore.

Gli americani, quando parlano di affari (Believe in what you sell)

November 25th, 2009

L’altro giorno, assieme a un mio socio, ero al telefono con Jack, un americano che adesso abita in Australia, che ci aveva chiamato per raccontarci quanto gli sarebbe piaciuto che la nostra azienda distribuisse in Italia certi prodotti americani che la sua azienda già distribuisce in Australia, Gran Bretagna e Olanda.

Jack era seriamente intenzionato a presentare bene la mercanzia e rendere allettante l’offerta, e lo faceva con uno stile molto americano, dichiarandosi interessato, anzi, excited all’idea di unire le nostre forze per conquistare il mercato italiano. Chissà perché gli americani si eccitano a parlare di affari. Questa sfumatura erotica che danno al business mi ha sempre incuriosito.

Parla che ti parla (tanto la telefonata dall’Australia la pagava lui), dopo che Jack ci ha spiegato per bene le meraviglie dei suoi prodotti, cominciamo a fare noi qualche domanda di altissimo profilo, tipo quanto costa this stuff, quanto mercato ha, quale sarebbe la nostra percentuale, perché noi italiani, quando parliamo di affari, siamo molto meno erotici e più prosaici degli americani.

A sentirci così poco eccitati e così tanto interessati a vili dettagli pecuniari, Jack deve aver percepito da parte nostra un atteggiamento non dico ostile, perché il tono della conversazione è rimasto sempre amichevole e rilassato, ma di sicuro molto più prudente e pratico di quello che lui si aspettava (gli americani, quando parlano di affari, sembra sempre che ti stiano invitando in vacanza a spese loro, e si sorprendono tantissimo, quasi si offendono se tu non accetti subito le loro proposte con abbondanti wow! e cool!).

Allora, forse per riaccendere l’entusiasmo e strapparci qualche wow!, Jack ha calato l’asso, la frase che secondo lui doveva riassumere tutta la forza della proposta e contenere tutte le buone ragioni per accettarla senz’altro: I believe in what we sell, credo in quel che vendiamo. E meno male che non eravamo in videoconferenza, perché a vederci piegati in due dal ridere non credo che l’avrebbe presa molto bene e tutto sommato mi sarebbe dispiaciuto, perché Jack è un tipo simpatico, forse non esattamente cool, ma simpatico sì.

Quella frase non mi usciva più dalla testa. I believe in what we sell. L’ho cercata in google e ho scoperto che believe in what you sell è uno slogan usato da qualche guru della motivazione personale, naturalmente americano, quindi ho pensato che potrebbe essere in corso uno spostamento epocale dell’approccio americano agli affari, dal piano erotico a quello religioso. Sta’ a vedere che questi da excited mi diventano faithful o believer, quando parlano di affari.

Poi ho provato a immaginare cosa potrebbe succedere se questa deriva religiosa del commercio si diffondesse a livello planetario: salumieri devoti agli insaccati; ortolani che accendono ceri a un dio lattuga; processioni di sarti che intonano inni sacri al doppio petto; assicuratori che edificano cosmogonie in forma di polizza. Ci sono delle volte che anche a lavorare uno si diverte.

L’immigrazione è un’opportunità

November 23rd, 2009

tratto da http://www.tim.it
 
Alla faccia degli stronzi che la considerano una minaccia.

Due pensieri

November 21st, 2009

tratto da http://en.wikipedia.org/wiki/File:Klee,_Angelus_novus.gifUno

C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta. [W.Benjamin, Tesi di filosofia della storia (1940), in Angelus Novus, Einaudi 1962, trad. Renato Solmi, pag. 80]

***

Due

Poi finalmente ho messo le mani su I detective selvaggi e leggendo dei poeti realvisceralisti (chiedetemi se amo Bolaño)

[…] Secondo lui, gli attuali realvisceralisti camminavano all’indietro. Come all’indietro? domandai.
— Di spalle, guardando un punto ma allontanandosene, in linea retta verso l’ignoto.

mi sono detta che evidentemente faccio parte della cricca. Con l’unica differenza che a me da ormai troppo tempo sembra di avere una pistola puntata contro. Forse di quando in quando alzo anche le mani. [Fragments of wishdom, 9 novembre 2009]

***

L’accostamento di questi due pensieri restituisce un’immagine piuttosto precisa dell’andamento declinante della nostra beneamata civiltà. Già il punto di vista di Benjamin non era propriamente ottimista: scaraventati verso un futuro incerto senza riuscire a distogliere lo sguardo dalle macerie del passato. Ma almeno il movimento era in avanti, e poi gli angeli volano e sono immortali.

Oggi, con i piedi ben piantati a terra e lo sguardo rivolto a un futuro parimente incerto, retrocediamo verso un passato che non conosciamo con precisione, ma di cui conserviamo vaghi ricordi inquietanti, ricordi di catastrofi e cumuli di macerie. E non siamo angeli, non siamo immortali, sappiamo che quella pistola puntata contro di noi può farci molto male. Alziamo le mani e teniamo aperte quelle, in mancanza di ali.

(disclaimer: questo non è un post triste)

Amleto

November 19th, 2009

Callisto: Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quan
Mario: Mario. Mi chiamo Mario.

C. E che c’entra, scusa?
M. C’entra che se tu vuoi parlare con uno che si chiama Mario chiamandolo Orazio, c’è anche caso che Mario non ti ascolti, Callisto.

C. Va bene, riformulo. Ci sono più cose in cielo e in terra, Mario, di quante ne sogni la tua filosofia.
M. Non sono un filosofo, sono un idraulico.
C. Ah be’, ma allora dillo che non ti va mai bene niente. Quanto sei indisponente!
M. No, sono solo preciso. Se ritieni eccessiva questa mia cura dei dettagli, l’aggettivo corretto è pedante, non indisponente.

C. Prendo atto della correzione, Mario. Possiamo andare avanti?
M. Sì. Stavi dicendo, Callisto?
C. Dicevo che in cielo e in terra ci sono più cose di quante tu ne possa immaginare. Sei d’accordo?
M. Mica tanto. Fammi un esempio.
C. Ma insomma, di che esempi avrai mai bisogno? Guardati un po’ attorno no? Non vedi anche tu che

M. Alt!
C. Cosa c’è che non va adesso?

M. C’è che prima mi dici che in cielo e in terra ci sono più cose di quante io ne immagini, poi mi inviti a verificare questa tua affermazione guardando e vedendo, usando cioè il senso della vista, che è cosa affatto diversa dall’immaginazione. Semmai avresti dovuto chiedermi di immaginare cose, per poi verificare (spetta a te, infatti, l’onere della prova) se la capienza della mia immaginazione sia inferiore a quella del cielo e della terra, come tu sostieni.

C. Mario.
M. Sì?
C. Immagina cose, per favore.

M. In questo momento sto immaginando un pastore maremmano in sella a una bicicletta con le ruote quadrate. Entra in pista, parte velocissimo, cicca la biglia di Gimondi e quella di Girardengo e si ferma a meno di un palmo da entrambe. Il pastore maremmano scende dalla bici, mette in tasca le biglie conquistate e si avvia tutto contento a prendere la metropolitana.
C. Ah ah ah! Tutto qui? Per batterti mi basta citare le foglie di quella siepe d’alloro: riesci a contarle? Sono centinaia, molto più numerose delle cose che hai immaginato.

M. Sì, ma tu hai mai preso la biglia di Gimondi e quella di Girardengo in un colpo solo a ciccopalmo?
C. No.
M. Allora ho vinto io, perché ho immaginato una cosa che per tua stessa ammissione non sta né in cielo né in terra, mentre io posso immaginare le foglie di quella siepe una a una, e persino immaginarne altre che nella siepe non ci sono.

C. Sei diabolico, Mario.
M. No, sono solo preciso.

M. Callisto, quella frase di prima, quella che ci sono più cose eccetera, non la dice Amleto nell’Amleto di Shakespeare?
C. Certo, Mario.

M. E allora, se la dice Amleto, perché tu ti chiami Callisto?

Riflessione per sottrazione

November 18th, 2009

La riflessione per sottrazione parte da un luogo comune pronunciato da Un Tizio Qualunque (UTQ) e procede per passi, con UTQ che a ogni giro toglie alla frase una o più parole. Man mano che la frase muta, l’Aspirante Riflettore Sottrattivo (ARS) esprimerà considerazioni proprie sulla parte restante. Al termine dell’esercizio l’ARS avrà compreso che i luoghi comuni sono involucri di innocua apparenza usati dagli esseri umani per celare ordigni letali. Segue un esercizio svolto.

***

UTQ: La vita è una cosa meravigliosa
ARS: Oh, che bello! Grazie per avermelo detto! Ero giusto qui che cercavo di capire perché ogni giorno che passa l’unica cosa che aumenta è la mia età, mentre diminuiscono senza che io possa farci niente altre cose a cui pure terrei, come la probabilità di arrivare vivo alla pensione, la speranza di lasciare ai posteri un mondo più accogliente e — non ultimo — diminuisce il tempo che mi separa dalla morte. Mi chiedevo appunto che senso ha la vita, se non quello di una corsa dissennata verso l’avello, ma tu ora mi dici — caro! — che la vita è una cosa meravigliosa! Proprio le parole di cui avevo bisogno per smettere di pensare! Grazie, grazie, grazie.

UTQ: La vita è una cosa
ARS: Una cosa, un oggetto come un altro. Ogni cosa ha un valore d’uso e uno di scambio. Uno dei trucchi per accumulare ricchezza è quello di alzare surrettiziamente il valore di scambio delle cose meno utili, e il trucco per aumentare il valore di scambio in carenza di utilità è limitare l’accesso a quelle cose per renderle desiderabili: più è difficile procurarsele, più assomigliano a un privilegio, più valgono. La vita è troppo utile e troppo accessibile per valere qualcosa.

UTQ: La vita è una
ARS: E chi ti dice questo solitamente assume un’espressione grave e cogitabonda, e aggiunge: “quindi vedi di non sprecarla”. E se fossero molte, le vite? Se il segreto stesse proprio nel viverne quante più possibile, avendo cura di dissiparle tutte con intelligenza per il bene proprio e altrui?

UTQ: La vita è
ARS: L’inganno dell’eterno presente, l’illusione che vivere significhi esserci adesso. Sto dimenticando a poco a poco che la vita fu e che sarà, sto rinunciando al dovere e al piacere di fare memoria e a quello di passare le consegne. Presto sarò pronto per l’imbalsamatore.

UTQ: La vita
ARS: Eh, la vita, la vita…

UTQ: La
ARS: Articolo terminativo.

UTQ: (…)
ARS: .

Del bue

November 16th, 2009

Questo articolo di Repubblica parla di conti bancari berlusconiani nella filiale milanese di una banca svizzera. Quello riportato in figura è l’elenco degli articoli correlati, che immagino sia creato automaticamente in base alla ricorrenza nei diversi testi di parole simili.

Il primo della lista — quindi, suppongo, quello più attinente alle vicende bancarie berlusconiane secondo l’algoritmo utilizzato — è questo, cioè un pezzo dedicato alla lenta ma inesorabile scomparsa del bue dal paesaggio campestre della provincia di Cuneo.

Orpo, dirà l’acuto lettore, ma che c’entra il bue delle Langhe con le banche svizzere e con la famiglia Berlusconi? Forse gli allevatori di Carrù versavano i guadagni della stalla in conti elvetici? Forse la banca in questione riciclava i proventi di sordidi abigeati? I Berlusconi sono appassionati di bollito piemontese?

Macché, niente di tutto questo. Il nesso insospettabile per le semplici menti umane, ma che non sfugge alla sofisticata abilità semantica degli algoritmi, è un altro: uno dei personaggi citati più volte nell’articolo bancario è un tal Del Bue

Toccherà fare ripetizioni di latino

November 15th, 2009

Apprendo da Anelli di fumo, che lo apprende da D-Avanti, che una professoressa di latino di Trani ha dato ai suoi studenti il compito di tradurre questo brano:

Tribunal Italicus, cuius munus est de legum communium congruentia cum lege suprema iudicare, sollemniter constituit legem nomine ministri Alfano appellatam, qua quattuor summi magistratus ante iudices per totum mandatum deferri non possint, legi supremae incongruam esse. Quare Silvius Berlusconi, minister primarius Italorum, in ius vocabitur corruptelae, fraudis et adulterationis accusatus: qui se dixit minime magistratu se abdicaturum esse et iudices et rei publicae praesidentem accusavit, quod sinistrae parti faveant.

Il mio latino è molto arrugginito, ma a occhio e croce mi sembra un brano giornalistico che si limita a riportare una notizia senza esprimere giudizi politici sui fatti e sui protagonisti. Potrebbe essere benissimo la traduzione di un lancio di agenzia. Il testo è tratto da una rivista in rete chiamata Ephemeris, che nell’apposita sezione qui simus, non sembra davvero rivendicare scopi politici o antiberlusconiani.

Il latino dell’onorevole Gabriella Carlucci dev’essere ancora più arrugginito del mio, visto che pare abbia intenzione di chiedere “l’apertura di un’inchiesta sull’accaduto per verificare se vi siano gli estremi per richiami ufficiali e sanzioni disciplinari”. Carlucci è convinta che il fatto configuri un uso delle cattedre scolastiche “per fare propaganda politica e per dileggiare ed offendere il Presidente del Consiglio”.

Mah. Sta a vedere che, dopo il test anti-droga, ai parlamentari toccherà fare ripetizioni di latino.

L’eterno fascino della diatriba

November 14th, 2009

La diatriba è l’anima della cultura. Platonici vs. Aristotelici, Nutella vs. CiaoCrem, Tolstoj vs. Dostoevskij, Coca vs. Pepsi, Antichi vs. Moderni, Indiani vs. Cowboy, e via così. Date in pasto all’umanità una materia opinabile, e subito sorgeranno due eserciti contrapposti e armati fino ai denti.

Questa natura essenzialmente bellica della comunicazione culturale pone qualche problema organizzativo, perché discutere una questione a randellate tende a por fine al dibattito per mancanza di contendenti prima che si trovi una soluzione, e questo non è bello a vedersi, né vantaggioso per il progresso della conoscenza.

Se ne rese conto per primo un intellettuale vissuto circa settantamila anni fa, di cui purtroppo non resta che il cranio conservato in un museo paleontologico kenyota. Un giorno costui raccolse una noce di cocco e si accingeva a spaccarla con l’ascia, quand’ebbe l’idea di chiedere ad alta voce: «secondo voi si spacca prima se l’appoggio per terra o se l’appoggio su questa bella pietra piatta?». Non l’avesse mai fatto. Fra i raccoglitori della sua squadra si formarono seduta stante due partiti, i terristi e i pietristi, che iniziarono a discutere animatamente, non senza pesanti scambi di motti salaci e reciproci sberleffi.

Quando i raccoglitori rientrarono al villaggio, la discussione si allargò a tutti gli abitanti e non ci volle molto per arrivare ai calci e ai ceffoni. L’intellettuale allora emise un grido ferocissimo che come per incanto immobilizzò i contendenti, taluni con le mani attorno al collo del vicino, altri col ginocchio a pochi centimetri dagli altrui genitali, altri ancora piegati in due per il colpo appena ricevuto. Quando fu sicuro di aver guadagnato l’universale attenzione, l’intellettuale disse: «facciamo così: cinque terristi di qua, cinque pietristi di là, ognuno con la sua bella noce da spaccare. Vince la squadra che finisce prima». Così fecero, e i pietristi conclusero la prova con ampio vantaggio sugli avversari.

Quella sera stessa tutti si sedettero in cerchio attorno a un grande fuoco al centro del villaggio, sbranando montagne di carne arrostita e tracannando latte di cocco fermentato. La discussione proseguì su tutt’altri toni: «se funziona con le noci di cocco» disse un raccoglitore «potrebbe andar bene anche con le selci, no?» e un arrotaselci rispose: «ottima idea. Domattina proverò ad affilarle sopra una pietra, anziché per terra, poi vi faccio sapere come è andata». E quello fu il primo circolo ermeneutico di cui si conservi il ricordo.

(tutto questo per dire che va bene provocare, va bene discutere, va bene lamentare le infime sorti e regressive dell’industria culturale, ma poi, a un certo punto, bisognerebbe cominciare a fare proposte in positivo. Per esempio, la butto lì, pubblicare in rete le opere di “valore non discutibile” (Cortellessa) e spiegare, sempre in rete, il perché e il percome il loro valore non sia discutibile (e mettere nel conto le eventuali legittime pernacchie)).