Posts Tagged ‘parole e cose’

Sul realismo

Friday, September 30th, 2011

Un testo realista nel senso di perfettamente simile alla realtà, nei suoi aspetti minimali, è un’evidente assurdità.

Novello Auerbach, falso idillio riflette sul realismo in letteratura. Da leggere.

(il lettore volenteroso e incline a perdere tempo può trovare temi simili in un vecchio racconto vergato da me qui)

La scollatura della Marisa

Sunday, September 4th, 2011

C’è modo e modo per dire le cose. Nella frase che precede questa, per esempio, il lettore scafato ne avrà senz’altro riconosciuti due: l’indicativo e l’infinito.

L’indicativo è il modo gentile e amichevole del colloquio, delle gite domenicali, delle chiacchiere pomeridiane al parco: sono andato al cinema con la Marisa e non ho visto il film, ma ho tenuto gli occhi inchiodati alla sua scollatura per tutto il tempo. Questo è il modo prìncipe della prosa, il modo in cui miliardi di individui dalla notte dei tempi hanno potuto esprimere tutto ciò che è quotidiano, familiare, rassicurante da un lato, ineluttabilmente noioso dall’altro.

L’infinito, al contrario, è il modo grazie al quale noi bipedi loquaci possiamo partire per la tangente, sognare, immaginare mondi alieni, fantasticare, è cioè il modo che ci consente di evadere dall’indicativo, di accantonare l’opprimente prosaicità quotidiana a favore di un tempo nuovo, dilatato, un po’ perso fra le nuvole: Oh, andare al cinema con la Marisa e non vedere il film, ma tenere gli occhi inchiodati alla sua scollatura per tutto il tempo!

Che il congiuntivo sia vagamente ecclesiastico e burocratico è un pregiudizio. Certo, la sua variante esortativa, parente stretta dell’imperativo, ricorda troppi professorini col ditino alzato e istiga alla ribellione linguistica, un po’ come il gesso che stride sulla lavagna, ma ciò non toglie che il congiuntivo sia anche tutto l’opposto, cioè un modo mite, incerto, incline al rossore e alla ritrosia, incapace di concludere, dubitativo, forse bisognoso di incoraggiamenti o di abbracci materni: E se andassi al cinema con la Marisa e non vedessi il film, ma tenessi gli occhi inchiodati alla sua scollatura per tutto il tempo?

Inguaribilmente burocratico è invece il gerundio, un modo che fin dal nome odora di timbri, archivi e ugge impiegatizie. Avendo un carattere pedante, essendo occhialuto e di natura subordinata e parassitaria, il gerundio non è abbastanza autonomo per dire qualcosa di suo, ma ha sempre bisogno di una principale a cui appoggiarsi: Andando al cinema con la Marisa e non vedendo il film, ma tenendo gli occhi incollati alla sua scollatura per tutto il tempo. Manca qualcosa, nevvero?

Il condizionale è ritenuto universalmente, e a ragione, il re dell’ipotetico. Non c’è modo migliore per dire ciò che potrebbe essere o che sarebbe potuto essere stato e, proprio per questo suo commercio con le congetture e le supposizioni, il condizionale ha la postura a un tempo mesta e desiderante degli insoddisfatti: Andrei al cinema con la Marisa e non vedrei il film, ma terrei gli occhi inchiodati alla sua scollatura per tutto il tempo.

C’è modo e modo per dire le cose e forse dovrei ancora spendere due parole sull’ambiguità del participio o sulla depressione dell’imperativo, ma dopo tutto, a parte il modo, quello che volevo dire è che la scollatura della Marisa è un film meraviglioso.

Pirandello

Monday, January 3rd, 2011

Per sopravvivere bastano dieci o dodici parole: ho fame; ho sete; lasciami solo; fottiti; baciami; è stato bello. Per vivere decentemente ne servono quattro o cinquecento al massimo. Per scrivere bisogna manovrarne parecchie migliaia, per via del fatto che la parola scritta non può avvalersi dei numerosissimi significanti emessi dal corpo umano durante una normale conversazione a quattr’occhi.

Dev’essere questo il motivo per cui il sagace Pirandello quella volta disse che la vita si vive o si scrive.

Realtà, ovvero letteratura

Saturday, October 9th, 2010

A proposito di “che cos’è la letteratura?”, ecco la trama ideale per un racconto che qualcuno prima o poi scriverà (o forse ha già scritto), anche senza conoscere lo strano caso di L.M.

Il paziente, il sig. LM, è un uomo di 68 anni, alcolista di lunga data, che ha sviluppato la sindrome di Korsakoff, caratterizzata proprio da grave amnesia e confabulazione ovvero produzione non intenzionale di falsi ricordi. Un normale paziente korsakoff è del tutto inconsapevole dei propri deficit mnestici e produce ricordi più o meno plausibili rispondendo a domande quali “cosa hai fatto ieri?” o “come hai trascorso la tua ultima vacanza?”, ma se gli si chiede cosa ha fatto il 13 marzo 1985 risponde “non lo so” come qualsiasi persona con memoria normale. Quello che rende unico LM è la sua inusuale tendenza a produrre una risposta confabulatoria anche per periodi così remoti e spesso con uno straordinario livello di dettaglio. “Ricorda”, per esempio, di aver indossato una certa maglietta nell’estate del 1979.
LM vive, in altre parole, “ricordando” perfettamente qualunque giorno della sua vita, senza essere consapevole che nessuno di quei ricordi è vero.

[Psicocafé — Lo strano caso di L.M. l’iperamnesico confabulante, via Pensieri spettinati]

(e comunque io, il 13 marzo 1985, precisamente alle sette e un quarto di mattina, ricordo di aver incontrato sul ventisette barrato un signore con la giacca gialla e i pantaloni blu che cantava Nessun dorma mangiando popcorn).

Cambiando le parole si cambiano le cose (?)

Friday, May 5th, 2006

Odradek, tratto da www.kafka.org[questo post fa ovviamente :-) il paio con questo, con la prima parte del quale quasi collima, mentre è in aperta contraddizione con la seconda parte. Come mai? Segno forse che il prode letturalenta si contraddice? Eccerto che si contraddice, perdinci, come tutti!]

In concomitanza con la Fiera internazionale del libro di Torino, accadono due fatti libreschi di segno contrario.

1. Il supplemento del sabato del quotidiano La Stampa (torinese come la fiera-salone) riprende il vecchio glorioso nome Tuttolibri e tornerà a occuparsi solo di libri ed editoria. Si tratta di un ritorno al passato. Da svariati anni, infatti, il supplemento si chiamava TTL, che – come spiega il precisissimo .mau. – stava per Tuttolibri Tempo Libero e includeva sezioni dedicate a viaggi, gastronomia e altri temi culturali.

2. L’altrettanto vecchio e glorioso sito librialice.it (che una volta si chiamava alice.it, dominio poi ceduto alla Telecom) si suicida per far sorgere dalle sue ceneri Wuz, un portale che a differenza del defunto si occuperà non solo di libri, ma anche di cinema, musica e attualità.
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Ciò che io non desidero non esiste

Tuesday, March 7th, 2006

Hypterodonte in viaggio per la luna, tratto da www.ariverneversleeps.comEra una notte di luna piena. Incipit alquanto banale, ne convengo, ma che altro si può dire di una notte di luna piena se non che era una notte di luna piena? Certo, uno scriba di solido mestiere e regolarmente iscritto al sindacato cercherebbe e forse troverebbe soluzioni più eleganti. Che so, potrebbe sostenere che la tenebra notturna cedeva il passo al fulgore pieno e rotondo di Selene; oppure potrebbe concentrarsi su un sasso, un timido sasso abitualmente grigio che, sfavillando come un diamante, proiettava un’ombra nerissima sulla sabbia candida di luce. Questi o altri artifizi aiuterebbero senz’altro lo scriba a guadagnare fama e recensioni positive, ma non cambierebbero di una virgola la nuda realtà dei fatti, ovvero che senza alcun dubbio era una notte di luna piena.
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Le parole spesso parlano di cose

Friday, March 3rd, 2006

Ludwig WittgensteinChiedo venia all’improvvido lettore che nonostante le mie reiterate prove di demenza continua tuttavia a leggere questo blog, ma devo fare una cosa un po’ irrituale nella dinamica blogghica. Si tratta di questo: prendo un commento a un mio post e lo faccio diventare post. Lo faccio perché credo che questo commento sia un post potenziale di un blog che ancora non esiste.

Fatto questo, prometto che leggerò attentamente questo post, e che tenterò di commentarlo come merita. Essendo io notoriamente lento, se qualcuno lo commenterà prima di me non mi offenderò.

Il post di kalle b.
Tu dici, o letturalenta: «Ecco, io credo che le parole parlino sempre e soltano di loro stesse, non di cose. Le cose sono manifestazioni fenomeniche delle parole: togli la parola sogno e i sogni cesseranno di esistere. Il che non significa che tu e io smetteremo di sognare, sia chiaro, ma solo che non saremo più in grado di parlare di sogni»

qui non mi trovi d’accordo. Le parole spesso parlano di cose. Non sempre, ma quasi. Se elimini la parola sogno, credo proprio che la notte continuerai ad essere visitato da certe cose che approssimativamente corrispondono a quel che noi, qui ed ora, chiamiamo sogni. Forse sarebbe un po’ più complicato spiegarsi tra di noi (“sai, stanotte ho avuto un…, sì insomma, stavo a letto, ma poi mi sono addormentato ed ho visto certe cose…” etc.). Ma scommetto che a qualcheduno verrebbe in mente di usare un nome, per una roba del genere.

Vale il viceversa, no? Quando si scopre qualcosa di mai visto prima -diciamo una nuova specie di lucertoloni nel mezzo della foresta amazzonica, o un continente inaspettato- gli si trova subito un bel nome nuovo di zecca -diciamo Hypterodonte, o America. Ma quella cosa stava lì da prima eh. Non è che l’atto di nomina produce la sua esistenza. A meno di essere Dio in persona.

Insomma, per dirla alla Wittgenstein: le parole sono la superficie di un’acqua profonda. La superficie, certo, e di un’acqua assai profonda. Ma c’è una relazione, tra il fondo del mare e le onde che ci viaggiano su.

Di cosa parliamo quando parliamo di hypterodonte

Friday, March 3rd, 2006

Odradek, tratto da www.kafka.orgSpesso mi coglie il dubbio che le parole non siano necessariamente comunicative, dubbio che si fa più tenace quando penso alla letteratura. Infatti, se non è del tutto irragionevole ipotizzare che chi scrive un discorso elettorale, o uno spot pubblicitario, o il manuale d’uso di un ordigno, o un trattato di astrofisica abbia un qualche intento comunicativo, mi sembra esercizio alquanto ozioso formulare la stessa ipotesi per chi scrive un racconto o un romanzo o altra opera finzionale. Cos’avrà mai voluto comunicare Cervantes con il Don Chisciotte, se non il Don Chisciotte medesimo, inteso come organizzazione premeditata di frasi, paragrafi, capitoli e punteggiatura?

Son problemi, osserva un onesto visitatore, ma che c’entra l’hypterodonte?
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La realtà è quella lì

Friday, February 17th, 2006

Sistema solare tolemaico, tratto da pctidifi.mi.infn.itNei commenti al post precedente fb parla di realtà da un punto di vista scientifico: la realtà osservabile, misurabile, riducibile a leggi fisiche. Il discorso scientifico esercita su di me il fascino delle lingue sconosciute: la mia onesta ignoranza delle materie scientifiche, conquistata a prezzo di duri esercizi di annientamento della memoria, fa sì che di quel discorso io percepisca solo il suono piacevole e la melodia incantatrice, senza alcun rischio di coglierne il significato.

Tuttavia anche un discorso scientifico è fatto di parole e le parole hanno il dono dell’indeterminatezza e dell’imprecisione, da cui deriva il loro elevatissimo potere evocativo e incantatorio. Le parole hanno quasi sempre un lato illuminato e uno oscuro. Il lato illuminato indica qualcosa – un oggetto, un’idea, un sentimento – mentre quello oscuro evoca altro, senza indicarlo esplicitamente. A causa di questa intrinseca doppiezza, le parole sono un eccezionale strumento di fraintendimento.
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Il lettore è de coccio

Monday, January 16th, 2006

Il Prater di Vienna, tratto da www.andreas-praefcke.de

Ho molte cose da raccontare che non si possono scrivere bene. (…) Nelle tue lettere c’è spesso qualcosa che io avevo già pensato esattamente allo stesso modo e che tuttavia fino a quel momento non ero ancora riuscito a definire con precisione. [H.Hofmannsthal, Le parole non sono di questo mondo, Quodlibet 2004, pag. 22]

Così scriveva il guardiamarina Edgar Karg von Bebenburg a Hugo von Hofmannsthal il 13 marzo 1893, ventenne il mittente, diciannovenne il destinatario. Per tutta la durata della corrispondenza, Edgar Karg mostra una grande fiducia nelle parole e nei libri: convinto che la cultura e l’erudizione potessero rivelare il senso profondo della vita – quel senso che a lui sfuggiva – chiedeva soccorso all’amico, pregandolo di inviargli libri, di spiegargli i motivi del senso di infelicità e di incompiutezza che provava, di dargli le parole giuste per capire meglio la propria vita e il mondo.

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Un dizionario impazzito

Thursday, December 22nd, 2005

Giorgio Manganelli, tratto da www.villagevoice.comDice daldivano nei commenti a un paio di post fa:

Il mio vocabolario ha un fascicolo in meno, passa da effeminatore a facoltà senza colpo ferire; quando cerco un vocabolo vado sempre lì, in quello iato. il mio vocabolario diversamente abile mi corrisponde in modo uguale e contrario, se io non leggo lo scibile lui non lo contempla, se lui non lo contempla io non lo leggo. però perdo le ore di fronte al connubio effeminatore e facoltà (perché il mio vocabolario è anche sagace e io lo so, anche se non lo leggo tutto).

A parte il fatto che l’ho letto e riletto rischiando di cascarci dentro, perché quell’immagine del dizionario col buco nero ha una gran forza di gravità, questo pensiero mi ha fatto venire in mente un’intervista a Manganelli (toh! chi si rivede) apparsa sul Corriere della Sera nel giugno del 1990, poco dopo la sua morte (ora in La penombra mentale, Editori Riuniti 2001). Dopo aver chiacchierato di letteratura, delle sue sedute presso lo psicanalista junghiano Ernst Bernhard, di superstizioni e di menzogne, di centro e di periferia, insomma di una fetta ampiamente maggioritaria dello scibile umano, l’intervistatrice Caterina Cardona tenta di riepilogare con un’ultima domanda:

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Il cane che abbaiava alle onde

Monday, December 5th, 2005

H.Hamilton, Il cane che abbaiava alle onde, Fazi 2004, traduzione di Isabella ZaniIn letteratura odio il sentimentalismo, l’espressione mielosa, il melodramma. Sono tutti modi scadenti per semplificare il complicatissimo groviglio del dolore umano. La verità è che di fronte al dolore le parole mancano completamente, non si sa cosa dire. Certo, ci sono frasi di circostanza collaudatissime: non ci pensare, vedrai che passerà, ci sono passato anch’io, ma sono solo modi per mascherare l’evidenza che in quel preciso momento non si sa proprio cosa dire.

Lo sa bene Hugo Hamilton, pare, dato che ha scritto un libro in cui la lingua del dolore è il silenzio. Oggi sono venuto a sapere quasi per caso che una persona cara non sta tanto bene. Avrei voluto dirle un sacco di cose, tipo non ci pensare, vedrai che passerà, ci sono passato anch’io, ma alla fine non le ho detto niente. E allora, in cambio di quello che non ho detto, le dedico questa lettura.

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I cosi non sono le cose

Thursday, November 17th, 2005

Libera nos a malo«C’è molto rame in casa, secchi, testi, stampi, leccarde, paioli». Questa frase apparentemente innocua si trova a metà del tredicesimo capitolo di Libera nos a malo, il capolavoro di Luigi Meneghello. A prima vista non è che una dimessa elencazione di vetusti arnesi da cucina affratellati da una comune natura cuprica, eppure mi è rimasta in mente per ore. Anche adesso che ho doppiato la pagina che la ospita, essa si ripresenta a intervalli regolari e si sovrappone alle parole che vado leggendo, dolce come una litania melodiosa e arcana, ossessiva come il ritornello di una canzonetta: secchi, testi, stampi, leccarde, paioli. Che sarà mai? Donde verrà questa malìa che a queste parole m’incatena? Devo disvelare il segreto di codesto incantamento, spezzarlo per poter completare libero da sortilegi la degustazione delle pagine rimanenti.

Il libro, innanzitutto, overossia il contesto in cui quella frase opera. Libera nos a malo è un racconto dominato da un acuto senso di displacement, di extraterritorialità, di migranza, di alloglossia perfino. È un memoir scritto in italiano da un italiano imbevuto di lingua inglese che dentro di sé, negli strati più profondi e radicali dell’essere suo, parla il dialetto di Malo, provincia di Vicenza. La lingua e il paese nativo, non l’io narrante, sono i protagonisti indiscussi di un sofferto rimpatrio, un tentativo disperatissimo e matto di ricostruire pezzo per pezzo le cose dell’infanzia e dell’adolescenza attraverso il recupero delle parole usate per renderle presenti. Il dialetto di Malo è dunque il linguaggio naturale della vita vissuta, dell’esperienza, mentre l’italiano è quello artificiale della cultura, delle idee ricevute, dello studio.

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